GIACOMO LEOPARDI
Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura
(pagg. 1-199)
Palazzo
bello. Cane di notte dal casolare, al passar del viandante.
Era la luna nel cortile, un
lato
Tutto ne illuminava, e
discendea
Sopra il contiguo lato obliquo
un raggio...
Nella (dalla) maestra via s’udiva
il carro
Del passegger, che stritolando
i sassi,
Mandava un suon, cui precedea
da lungi
Il tintinnìo de’ mobili
sonagli.
Onde Aviano raccontando una
favoletta dice che una donna di contado piangendo un suo bambolo, minacciogli
se non taceva che l’avrebbe dato mangiare a un lupo. E che un lupo che a caso
di là passava, udendo dir questo alla donna credettele che dicesse vero, e
messosi innanzi all’uscio di casa così stette quivi tutto quel giorno ad
aspettare che la donna gli portasse quella vivanda. Come poi vi stesse tutto
quel tempo e la donna non se n’accorgesse e non n’avesse paura e non gli
facesse motto con sasso o altro, Aviano lo saprà che lo dice. E aggiugne che il
lupo non ebbe niente perchè il fanciullo s’addormentò, e quando bene non l’avesse
fatto non ci sarìa stato pericolo. E fatto tardi, tornato alla moglie senza
preda perchè s’era baloccato ad aspettare fino a sera, disse quello che nell’autore
puoi vedere.
Una Dama
vecchia avendo chiesto a un giovane di leggere alcuni suoi versi pieni di
parole antiche, e avutili, poco dopo rendendoglieli disse che non gl’intendeva
perchè quelle parole non s’usavano al tempo suo. Rispose il giovane: Anzi
credea che s’usassero perchè sono molto antiche.
E
ritornan le feste a la dimane:
Fan
del regno a metà Cesare e Giove.
Dal niente in letteratura si
passa al mezzo e al vero, quindi al raffinamento: da questo non c’è esempio che
si sia tornato al vero. Greci e latini italiani. Lo squisito gusto del volgo de’
letterati non può essere se non quando ei non è ancora corrotto. P.E. i
cinquecentisti volgari non peccavano d’altro che di poco, non di troppo, e però
erano attissimi a giudicar bene del molto, o sia del vero bello, come faceano.
Il
trecento fu il principio della nostra letteratura, non già il colmo, imperocchè
non ebbe se non tre scrittori grandi: il quattrocento non fu corruzione nè [2] raffinamento del trecento, ma un sonno
della letteratura (che avea dato luogo all’erudizione) la quale restava ancora
incorrotta e peccava ancora più tosto di poco. Poliziano, Pulci. Il cinquecento
fu vera continuazione del trecento e il colmo della nostra letteratura. Di poi
venne il raffinamento del seicento, che nel settecento s’è solamente mutato in
corruzione d’altra specie, ma il buon gusto nel volgo dei letterati non è
tornato più, nè tornerà secondo me, perchè dal niente si può passare al buono,
ma dal troppo buono o sia dal corrotto stimo che non si possa.
Non il
Bello ma il Vero o sia l’imitazione della Natura qualunque, si è l’oggetto
delle Belle arti. Se fosse il Bello, piacerebbe più quello che fosse più bello
e così si andrebbe alla perfezion metafisica, la quale in vece di piacere fa
stomaco nelle arti. Non vale il dire che è il solo bello dentro i limiti della
natura, perchè questo stesso mostra che è l’imitazione della natura dunque che
fa il diletto delle belle arti, imperocchè se fosse il bello per se, vedesi che
dovrebbe come ho detto più piacere il maggior bello, e così più piacere la
descrizione di un bel mondo ideale che del nostro. E che non sia il solo bello
naturale lo scopo delle Belle Arti vedesi in tutti i poeti specialmente in
Omero, perchè se questo fosse, avrebbe dovuto ogni gran poeta cercare il più
gran bello naturale che si potesse, dove Omero ha fatto Achille infinitamente
men bello di quello che potea farlo, e così gli Dei ec. e sarebbe maggior poeta
Anacreonte che Omero ec. e noi proviamo che ci piace più Achille che Enea ec.
onde è falso anche che quello di Virgilio sia maggior poema ec. Passioni morti
tempeste ec. piacciono egregiamente benchè sian brutte per questo solo che son
bene imitate, e se è vero quel che dice il Parini nella Oraz. della poesia,
perchè l’uomo niente tanto odia quanto la noia, e però gli piace di veder
qualche novità ancorchè brutta. Tragedia. Commedia. Satira han per oggetto il
brutto ed è una mera quistion di nome il contrastar se questa sia poesia. Basta
che tutti la intendono per poesia Aristotele e Orazio singolarmente e che io
dicendo poesia intendo anche questi generi. V. Dati Pittori ed. Siena 1795.
p.57.66.
Il
brutto come tutto il resto deve star nel suo luogo: e nell’Epica e lirica avrà
luogo più di raro ma spessissimo nella Commedia Tragedia Satira ed è quistion
di parole ec. come sopra. Il vile di raro si dee descrivere perchè di raro può
star nel suo luogo nella poesia (eccetto nelle Satire Commedie e poesia
bernesca) non perchè non possa essere oggetto della poesia. Ancora potendo
esser molti generi di una cosa e questi qual più qual meno degno, [3] niente
vieta che dei diversi generi di poesia altro abbia per oggetto più
particolarmente il bello altro il doloroso altro anche il brutto e il vile, e
però qual sia più nobile e degno qual meno e non per tanto tutti sieno generi
di poesia, nè ci sia oggetto di veruno di essi che non possa essere oggetto
della poesia e delle arti imitative ec.
La perfezione di un’opera di
Belle Arti non si misura dal più Bello ma dalla più perfetta imitazione della
natura. Ora se è vero che la perfezione delle cose in sostanza consiste nel
perfetto conseguimento del loro oggetto, quale sarà l’oggetto delle Belle Arti?
L’utile
non è il fine della poesia benchè questa possa giovare. E può anche il poeta
mirare espressamente all’utile o ottenerlo (come forse avrà fatto Omero) senza
che però l’utile sia il fine della poesia, come può l’agricoltore servirsi
della scure a segar biade o altro senza che il segare sia il fine della scure.
La poesia può esser utile indirettamente, come la scure può segare, ma l’utile
non è il suo fine naturale, senza il quale essa non possa stare, come non può
senza il dilettevole, imperocchè il dilettare è l’ufficio naturale della
poesia.
Sentìa del canto risuonar le
valli D’agricoltori ec.
Più ci
diletterebbe una pianta o un animale veduto nel vero che dipinto o in altro
modo imitato, perchè non è possibile che nella imitazione non resti niente a
desiderare. Ma il contrario manifestamente avviene: da che apparisce che il
fonte del diletto nelle arti non è il bello, ma l’imitazione.
Il
quattrocento restò dal fare, ma conservava l’idea del bello incorrotta; però
benchè non facesse, pure apprezzava il fatto anzi lo cercava: quindi l’infinito
studio de’ Classici e l’erudizione dominante nel secolo. Il cinquecento col
capitale acquistato nel 400 e coll’istradamento del 300 tornò a fare. Ma il
seicento perchè era non debole ma corrotto, non solamente non sapea far bene,
ma disprezzava il ben fatto anzi gli dispiacea. Quindi la dimenticanza di Dante
del Petrarca ec. che non si stampavano più. Nel principio del settecento
ripigliammo non le forze, ma solo il buon gusto e l’amore degli studi classici,
e la prima metà di questo secolo somiglia però al quattrocento, nè si fa molto
conto di quest’epoca di risorgimento perchè non produsse (come il 400) nessun
lavoro d’arte fuorchè la Merope, e durò tanto poco che un uomo stesso potè aver
veduto il tempo di corruzione il risorgimento e il ricadimento. Ricadute le
nostre lettere (nella imitazione e studio degli stranieri) son comparsi nella
seconda metà del 700 e principio dell’800 i nostri [4] ultimi lavori d’arte.
Questi sono di quegli scrittori che nella corruzione si conservano illesi, non
possono essere stimati da molti ec. Ma adesso l’arte è venuta in un incredibile
accrescimento, tutto è arte e poi arte, non c’è più quasi niente di spontaneo,
la stessa spontaneità si cerca a tutto potere ma con uno studio infinito senza
il quale non si può avere, e senza il quale a gran pezza l’aveano (spezialmente
nella lingua) Dante il Petrarca l’Ariosto ec. e tutti i bravi trecentisti e
cinquecentisti. Questo avviene perchè ora si viene da un tempo corrotto
(oltrechè si sta pure tra’ corrotti) e bisogna porre il più grande studio per
evitare la corruzione, principalmente quella del tempo la quale prima che
abbiamo pensato a guardarcene s’è impadronita di noi, e poi quella dei tempi
passati, perchè adesso conosciamo tutti i vizi delle arti e ce ne vogliamo
guardare, e non siamo più semplici come erano i greci e i latini e i trecentisti
e i cinquecentisti perchè siamo passati pel tempo di corruzione e siamo
divenuti astuti nell’arte, e schiviamo i vizi con questa astuzia e coll’arte
non colla natura come faceano gli antichi i quali senza saperne più che tanto
pure perchè l’arte era in sul principio e non ancora corrotta non gli
schivavano ma non ci cadevano. Erano come fanciulli che non conoscono i vizi,
noi siamo come vecchi che li conosciamo ma pel senno e l’esperienza gli
schiviamo. E però abbiamo moltissimo più senno e arte che gli antichi, i quali
per questo cadevano in infiniti difetti (non conoscendoli) in cui adesso non
cadrebbe uno scolaro. Vizi d’Omero concetti del Petrarca, grossezze di Dante,
seicentisterie dell’Ariosto del Tasso del Caro traduzione dell’Eneide ec. E
però adesso le nostre opere grandi (pochissime perchè ancora siamo nella
corruzione onde pochissimi emergono) saranno tutte senza difetti,
perfettissime, ma in somma non più originali, non avremo più Omero Dante l’Ariosto.
Esempio manifesto del Parini Alfieri Monti ec. Onde apparisce quel che io
disopra ho detto che dopo che le arti di fanciulle e incorrotte si son fatte
mature e corrotte, (come gli uomini di mezza età viziosi) invecchiando e
ravvedendosi, non potranno più ripigliare il vigore della fanciullezza e giovinezza.
Le arti presso i Greci e i latini corrotte una volta non risorsero più presso
noi van risorgendo: primo esempio finora al mondo, dal quale solo si possono
cavare le prove pratiche della mia sentenza. Se non che i poeti e altri
scrittori grandi d’oggi stanno in certo modo agli antichi del 300 e 500 come i
greci dei secoli d’Augusto e degli imperatori, p.e. Dionigi Alicarnasseo,
Dione, Arriano ad Erodoto Tucidide Senofonte: ma questi eran passati per un’età
e si trovavano ancora in un’età più tosto di debolezza che di corruzione.
[5] Come i fanciulli e i giovinetti
benchè di buona indole pure per la malizia naturale, di quando in quando
scappano in qualche difetto e non per tanto sono differentissimi dagli uomini
grandi e cattivi, così gli antichi senza conoscere nè amare i vizi delle arti,
per la naturale tendenza dell’ingegno alla ricercatezza e cose tali di quando
in quando vi cadeano non riflettendo che fossero vizi, e non per tanto
infinitamente differivano dagli adulti artefici del 600 e 700 radicati nella
corruzione. E adesso chiunque, per pochissimo che abbia studiato a prima giunta
vede che quelli sono errori e che gli antichi hanno errato. P.E. chi non vede
adesso che è cosa ridicola e affettatissima il lamento d’Olimpia ec. nell’Ariosto,
quello d’Erminia ec. nel Tasso? E pure questi grandissimi poeti perchè l’arte
era giovane e senza esperienza in buona fede cascavano in questi errori, e noi
perchè siamo vecchi nell’arte col nostro senno e coll’esperienza de’ tempi
corrotti, ce ne ridiamo e li fuggiamo. Ma questo senno e questa esperienza sono
la morte della poesia ec. Come però si dovrà dire che l’Ariosto per esempio
avesse somma arte se cadeva spessissimo in difetti che il più meschino artefice
d’oggidì conosce a prima vista? Non avea
somma arte ma sommo ingegno, pulitissimo, ma non corrotto, e meno poi ripulito.
Per
guardarci dai vizi e dalla corruzione dello scrivere adesso è necessario un
infinito studio e una grandissima imitazione dei Classici, molto molto maggiore
di quella che agli antichi non bisognava, senza le quali cose non si può essere
insigne scrittore, e colle quali non si può diventar grande come i grandi
imitati. Come il cocchiere fa guidando i cavalli per la china, che poco concede
loro perchè troppo non gli rapiscano.
Padron, se con lamenti e
con rammarichi
Si
rimediasse a le nostre miserie,
Bisognerebbe
comperar le lagrime
A peso
d’or: ma queste tanto possono
Le
disgrazie scemar, quanto le prefiche
Svegliare
i morti con le loro istorie:
Ne’
guai non ci vuol pianto ma consiglio.
[6] Messer tale domandato da alcuni che
disputavano sopra una statua antica di Giove in terra cotta che ne sentisse,
rispose: Maravigliomi come non vi siate accorti che questo è un Giove in Creta:
volendo dire in terra cotta, ma in sembianza, nell’isola di Creta, dove Giove
fu allevato.
Sistema
di Belle Arti.
Fine -
il diletto; secondario alle volte, l’utile. - Oggetto o mezzo di ottenere il
fine - l’imitazione della natura, non del bello necessariamente. - Cagione
primaria del fine prodotto da questo oggetto o sia con questo mezzo - la
maraviglia: forza del mirabile e desiderio di esso innato nell’uomo: tendenza a
credere il mirabile: la maraviglia così è prodotta dalla imitazione del bello
come da quella di qualunque altra cosa reale o verisimile: quindi il diletto
delle tragedie ec. prodotto non dalla cosa imitata ma dall’imitazione che fa
maraviglia. - Cagioni secondarie e relative ai diversi oggetti imitati - la
bellezza, la rimembranza, l’attenzione che si pone a cose che tuttogiorno si
vedono senza badarci ec. - Cagione primitiva del diletto destato dalla
maraviglia ec. e però conseguentemente del diletto destato dalle belle arti - l’orrore
della noia naturale all’uomo, ricerche sopra le cagioni di quest’orrore ec. -
Cagioni dei difetti nelle belle arti - Sproporzione, sconvenevolezza, cose
poste fuor di luogo, al che solo (contro l’opinione di chi pensa che provenga
dall’avere le arti per oggetto il bello) si riducono i difetti della bassezza
della bruttezza deformità crudeltà sporchezza tristizia tutte cose che
rappresentate o impiegate nei loro luoghi non sono difetti giacchè piacciono e
per mezzo dell’imitazione producono la maraviglia, ma sono difetti fuor di
luogo p.e. in un’anacreontica l’imagine di un ciclopo, (per lo più) in un’epopea
per lo più la figura di un deforme ec. Altri difetti e vizi; affettazione ec.
quasi tutti si riducono alla sconvenevolezza e inverisimiglianza che proviene
dallo sconvenirsi tra loro in natura quegli attributi della cosa inverisimile,
onde la mente che comprende la [7] sconvenienza degli attributi
concepisce l’inverisimiglianza. - Diversi rami della imitazione che formano i
diversi oggetti delle belle arti e i diversi generi p.e. di poesia, i quali
tanto più son degni e nobili quanto più degni ec. sono gli oggetti, onde un
genere che abbia per oggetto il deforme, sarà un genere poco stimabile e da non
mettersi p.e. coll’epopea, benchè anch’esso sia un genere di poesia destando la
maraviglia e quindi il diletto col mezzo dell’imitazione.
Del Bello
|
Del Sublime
|
Del terribile
|
Del ridicolo e vizioso ec.
|
Epopea Lirica ec.
|
Lirica Epopea ec.
|
Tragica ec.
|
Commedia satira
poesia Bernesca ec.
|
Vari rami del bello.
Bello delicato -
grazioso - ameno - elegante. V. Martignoni ec. Annali di scienze e lettere
n.8. p.252-54. Ci può essere il bello delicato e il non delicato. Ercole,
Apollo. Bello sublime. Giove.
|
[8] Provatevi a respirare
artificialmente, e a fare pensatamente qualcuno di quei moltissimi atti che si
fanno per natura; non potrete, se non a grande stento e men bene. Così la tropp’arte
nuoce a noi: e quello che Omero diceva ottimamente per natura, noi pensatamente
e con infinito artifizio non possiamo dirlo se non mediocremente, e in modo che
lo stento più o meno quasi sempre si scopra. V. p.461.
Difficoltà
d’imitare: più facile il far più che quel medesimo: quanto sia difficile l’essere
uguale: quanto rara in natura l’uguaglianza perfetta: quindi la maraviglia nata
dall’imitazione e il diletto nato dalla maraviglia. V. Quintiliano, l.10.c.11.
quindi la maggior facilità di esprimere un bello ideale che il proprio bello
naturale anche minore dell’ideale.
Due gran
dubbi mi stanno in mente circa le belle arti. Uno se il popolo sia giudice ai
tempi nostri dei lavori di belle arti. L’altro se il prototipo del bello sia
veramente in natura, e non dipenda dalle opinioni e dall’abito che è una
seconda natura. Della prima quistione se mi verrà in mente qualche pensiero lo
scriverò poi: della seconda, osservo che a noi par conveniente a un soggetto (e
la bellezza sta tutta si può dire nella convenienza) quello che siamo
assueffatti a vederci, e viceversa sconveniente ec. e però ci par bello quello
che ha queste tali cose e brutto o difettoso quello che non le ha: benchè in
natura non debba averle o viceversa. P.e. ci par deforme una certa razza di
cani quando ha l’orecchie non tagliate ec. potenza della moda specialmente
intorno alla bellezza delle donne ec. Mi pare che in natura non ci siano quasi
altro che i lineamenti del bello, come sono l’armonia la proporzione e cose
tali che secondo il solo lume naturale debbono trovarsi in ogni cosa bella: e
che l’ombreggiare gli oggetti belli dipenda tutto dalle nostre opinioni. Per
questo si possono addurre infiniti esempi. E li distinguo in due classi: l’una
di quelli che provano la diversità di opinioni intorno agli oggetti in natura;
l’altra ec. intorno agli oggetti nell’imitazione ossia nelle belle arti.
Natura
Occhi azzurri belli tra’ greci: neri tra noi. Capelli
biondi belli in Italia nel cinquecento: neri al presente. Diversissime
opinioni de’ barbari intorno alla bellezza che pur mostrano che in natura non
ce n’è idea fissa. V. Camper Diss. sur le beau physique. Cavalli scodati.
Cani colle orecchie tagliate. Opinione e senso de’ nostri contadini circa la
bellezza, e vedi quelle descritte nella Beca e nella Nencia non già da
scherzo, ma perchè di quella sorta piacciono ai villani. Bello ideale ch’esprimerebbe
p.e. un pittore moro di qualunque genio ed entusiasmo si fosse. Il bello
ideale non è [9] altro che l’idea della convenienza che
un artista si forma secondo le opinioni e gli usi del suo tempo, e della sua
nazione. Barba, e capelli tagliati o no.
|
Belle Arti
Pittura ec. de’
cinesi. Musica de’ turchi. V. Martignoni Annal. di Scienze e lett. n.8.
p.245. nota, ove anche della musica francese e italiana. Presso noi non
disdicono le fabbriche a mattoni nudi, anzi son ridicole imbiancate e
colorite. Il contrario de’ Cinesi ai quali le nostre facciate parrebbero cosa
affatto greggia e rozza.
|
I
francesi hanno certe esagerazioni familiari così usitate che sono vere frasi
proprie della lingua e non di questo o di quello scrittore o parlatore; le
quali danno un’idea della sempiterna affettazione e del tuono esaltato quando
in uno quando in altro modo, con cui sono scritti si può dir tutti i loro
libri. Giammai persona non fu più fedele al suo re. Nessun altro fu sì
ricordevole del benefizio. (Aucun ne fut ec.) Non si vide mai tanto amore nè
tanta costanza. E nota che questo medesimo lo diranno a un bisogno di due o tre
persone o più in uno stesso libro. Troverai spessissimo che parlando di qualche
scrittore dozzinale ti diranno per esempio: egli ha tutta la tenerezza di
Racine e tutto lo spirito di Voltaire, egli è sublime come Corneille e semplice
come la Fontaine, egli stringe come Bourdaloue, commuove come Massillon,
trasporta come Bossuet: e ti maraviglierai come uno scrittore in cui si trovano
unite le qualità principali di più altri (secondo loro) grandi, che ne hanno
ciascheduno, una sola, non sia più grande di questi, nè celebre presso tutta la
nazione, e forse tu ne legga il nome per la prima volta.
In molte
opere di mano dove c’è qualche pericolo (o di fallare o di rompere ec.) una
delle cose più necessarie perchè riescano bene è non pensare al pericolo e
portarsi con franchezza. Così i poeti antichi non solamente non pensavano al
pericolo in cui erano di [10] errare, ma (specialmente Omero) appena
sapevano che ci fosse, e però franchissimamente si diportavano, con quella
bellissima negligenza che accusa l’opera della natura e non della fatica. Ma
noi timidissimi, non solamente sapendo che si può errare, ma avendo sempre
avanti gli occhi l’esempio di chi ha errato e di chi erra, e però pensando
sempre al pericolo (e con ragione perchè 1. vediamo il gusto corrotto del
secolo che facilissimamente ci trasporterebbe in sommi errori, 2. osserviamo le
cadute di molti che per certa libertà di pensare e di comporre partoriscono
mostri, come sono al presente p.e. i romantici) non ci arrischiamo di scostarci
non dirò dall’esempio degli antichi e dei Classici, che molti pur sapranno
abbandonare, ma da quelle regole (ottime e Classiche ma sempre regole) che ci
siamo formate in mente, e diamo in voli bassi, nè mai osiamo di alzarci con
quella negligente e sicura e non curante e dirò pure ignorante franchezza, che
è necessaria nelle somme opere dell’arte, onde pel timore di non fare cose
pessime, non ci attentiamo di farne delle ottime, e ne facciamo delle mediocri,
non dico già mediocri di quella mediocrità che riprende Orazio, e che in poesia
è insopportabile, ma mediocri nel genere delle buone cioè lavorate, studiate,
pulitissime, armonia espressiva, bel verso, bella lingua, Classici ottimamente
imitati, belle imagini, belle similitudini, somma proprietà di parole, (la
quale soprattutto tradisce l’arte) insomma tutto, ma che non son quelle, non
sono quelle cose secolari e mondiali, insomma non c’è più Omero Dante l’Ariosto,
insomma il Parini il Monti sono bellissimi ma non hanno nessun difetto. V.
p.461.
In
Plauto il sommo pregio è quello della forza comica che non è altro se non
quella certa vivacità dei personaggi ottenuta col mezzo del ridicolo, che nel
mentre che vivifica l’azione (a differenza delle Commedie di Terenzio dove c’è
gran serietà e però dice Cesare ch’egli manca di forza comica, a ragione,
perchè l’azione importando poco per se e non avendo la importanza della
tragedia, se non è continuamente rallegrata e rinforzata dal ridicolo, resta
debole, e come morta) ottiene il fine della Commedia che è di distogliere [11]
dal vizio il che principalmente è operato dal ridicolo. Ma i costumi ´Jh presso Plauto sono poco insigni.
Ciascuno opera, è vero come dee (almeno per l’ordinario) ma 1. tutte le
fisonomie si rassomigliano: sempre appresso a poco è lo stesso parassito, lo
stesso padre, lo stesso servo traditore, lo stesso figlio scapestrato, la
stessa meretrice, ec.; 2. i tratti che qualche volta distinguono un volto dall’altro
sono grossolani: per esempio questa innamorata sarà leale, quest’altra perfida;
questo padre pieghevole, questo duro; questo figlio temperante quest’altro
lussurioso, ed ecco tutto; ec.; 3. c’è qualche volta molta naturalezza ora in
qualche scena bellissima che innamora, ora in qualche Commedia intera, ma quivi
le persone dicono quello che ogni uomo in quella situazione direbbe, e benchè
le parlate siano naturalissime, cavate dal vero, e ritratte con grandissima
finezza dalla natura, pure non sono modificate secondo il carattere e il
costume particolare della persona: insomma non si vede in Plauto una figura
tutta perfettamente delineata e ombreggiata, e i costumi che egli dipinge sono
del genere, p.e., del padre, o della specie, p.e., del padre buono o del padre
iracondo, e non dell’individuo, la qual cosa osservo anche in Terenzio, il
quale per altro è molto superiore a Plauto per li costumi e la naturalezza,
essendo penetrato più addentro nel cuore umano ec. Qualche volta anche non è
conservata in Plauto la naturalezza e la verisimiglianza, specialmente nel fine
delle Commedie, dove talvolta i personaggi si risolvono troppo d’improvviso e a
grado del poeta, essendo stati fin allora di animo diversissimo e anche
contrarissimo a quella tale risoluzione. Ma egli pare che Plauto talora non
volendo altro che far ridere e satireggiare, della verisimiglianza non si
curasse, anzi a bello studio cercasse l’inaspettato, non già l’inaspettato
verisimile che si raccomanda in poesia, ma l’inaspettato inverisimile e
grossolano che però appunto è più ridicolo, come nel fine delle Bacchidi dove
fa innamorare all’improvviso per istrazio quei due vecchi venuti all’opposto
per bravare quelle meretrici, e in quella scena del Canapo dove mette una
tenzone di licet licet e di altre tali risposte sempre ripetute, in un
momento caldo e importante, dov’è impossibile che i personaggi badassero a
questi giuochi.
[12]
L’arte di Ovidio
di metter le cose sotto gli occhi, non si chiama efficacia, ma pertinacia. ec.
I
francesi colla loro pronunzia tolgono a infinite parole che han prese dai
latini italiani ec. quel suono espressivo che aveano in origine, e che è uno
dei più grandi pregi nelle lingue ec. ec. Per esempio nausea in latino e in
italiano con quell’au e con quel’ea imita a maraviglia quel gesto che l’uomo fa
e quella voce che manda scontorcendo la bocca e il naso quando è stomacato. Ma noséé
non imita niente, ed è come quelle cose che spogliate degli spiriti e dei sali,
umori, grasso ec. restano tanti capomorti. (capogatti ec. non capigatti) V.
questi pensieri p.95.
Un’osservazione
importantissima intorno alle traduzioni, e che non so se altri abbia fatta, e
di cui non ho in mente alcuno che abbia profittato, è questa. Molte volte noi
troviamo nell’autore che traduciamo p.e. greco, un composto una parola che ci
pare ardita, e nel renderla ci studiamo di trovargliene una che equivalga, e
fatto questo siamo contenti. Ma spessissimo quel tal composto o parola comechè
sia, non solamente era ardita, ma l’autore la formava allora a bella posta, e
però nei lettori greci faceva quell’impressione e risaltava nello scritto come
fanno le parole nuove di zecca, e come in noi italiani fanno quelle tante
parole dell’Alfieri p.e. spiemontizzare ec. ec. Onde tu che traduci, posto
ancora che abbi trovato una parola corrispondentissima proprissima
equivalentissima, tuttavia non hai fatto niente se questa parola non è nuova e
non fa in noi quell’impressione che facea ne’ greci. E qui è così comune l’inavvertenza
che nulla più. Perchè se traducendo trovi quella parola e non l’intendi, tu
cerchi ne’ Dizionari, e per esser quella, parola di un classico, tu ce la trovi
colla spiegazione in parole ordinarie, e con parole ordinarie la rendi e non
guardi, prima se quell’autore che traduci è il solo che l’abbia usata; secondo
se è il primo; perchè potrebbe anche dopo lui esser passata in uso e nondimeno
non essere stato meno ardito nè nuovo nè esprimente il suo primo usarla. Ecco
un esempio. Luciano ne’ Dial. de’ morti; Ercole e Diogene; usa la parola ntandron. Cerca ne’ Lessici: spiegano: succedaneus ec. ma se tu volti: sostituto,
o che so io, non arrivi per niente all’efficacia burlesca e satirica di quella
nuova parola di Luciano che vuol dire: contrappersona, e colla sua novità ha
una vaghezza e una forza particolare specialmente di deridere. (N.B. bene, io
non so se questa voce di Luciano sia di lui solo: la trovo ne’ Dizionari senza
esempio, onde potrebbe anche esser propria della lingua: e bisogna cercare
migliori dizionari che io per ora non ho; perchè cadrebbe a terra quest’esempio,
per altro sufficiente a dare ad intendere, vero o no che sia, la mia
proposizione e osservazione.) Quello che io ho detto delle parole va inteso
anche dei modi frasi, ec. ec. ec.
[13] Non credo che siano molto da
ascoltare quelli che credono che certi passi sublimi della Bibbia avanzino ogni
altro passo sublime di qualsivoglia autore; e lo provano colla grandezza
materiale dell’imagine; p.e., dicono, il misurare le acque colla mano e pesare
i cieli colla palma, (Is.40.12.) è ben più che scagliar la folgore dall’alto di
Ato e di Rodope e riempier di spavento i cuori de’ mortali, crollar l’Olimpo coll’accennar
del capo, ec. ec. Senza dubbio non si può dir niente di Dio che non sia
infinitamente al di sotto del vero, e però la Bibbia (e la Bibbia molto meno
che qualunque altro) non dice mai cosa che appetto al vero non sia
strapiccolissima, e pure io ardirò di affermare che quelle tali espressioni
della Bibbia, nella poesia umana sono esagerazioni, e che in essa poesia vale
assolutamente più in rigore di pregio poetico, quel Giove accennante col capo e
scuotente l’Olimpo; quel Nettuno che in quattro passi traversa provincie; quel
grido di Marte ferito che pareggia il grido di diecimila combattenti e d’improvviso
atterrisce ambedue gli eserciti, Greco e troiano; (Il.5); quella caduta dello
stesso Dio che disteso occupa sette iugeri di terreno; (Il.21.407.) di quelle
tante imagini sublimissime della Bibbia, perchè nella poesia umana ci vuole il
mezzo dappertutto, il mezzo, che è il gran luogo di verità e di natura, e che
nè anche col vero si dee oltrepassare: e il sublime dee scuotere fortemente il
lettore, ma non subbissarlo con cose che oltrepassino la capacità nostra. E
questo della poesia umana. Ma la poesia divina come la Scrittura, dee veramente
subbissare e oltrepassare la capacità umana, e però quelle imagini (essendo poi
per se stesse lontanissime dall’essere esagerate) convengono ottimamente a
questa sorta di poesia tutta essenzialissimamente diversa dalla nostra; e però
da noi non imitanda senza colpa poetica. Del resto, io dico bene che quelle
imagini convengono a quella poesia, ma non già credo come dicono alcuni, che
esse più tosto che al gusto orientale, si debbano al più vivamente sentire la
maestà divina che faceano i lirici Ebrei: (Borgno, Diss. sopra i Sepolcri del
Foscolo Milano 1813.p.86. nota 1.) che per esser subito persuasi del contrario
basta osservare i luoghi della Bibbia dove non si parla di Dio nè di cose
affatto sublimi, come p.e. tutta la Cantica dove anzi si parla di amore e cose
delicate, e pure vi si vedono le stesse metaforone e traslatoni e cose
eccessive: però veramente e assolutamente derivate dal gusto orientale, a cui
tuttavia non negherò che l’ispirazione così poetica come divina non accrescesse
forza quanto alle imagini e frasi dette di sopra ec.
L’efficacia
dell’espressioni bene spesso è il medesimo che la novità. Accadrà molte volte
che l’espressione usitata sia più robusta più vera più energica, e nondimeno l’esser
ella usitata le tolga la forza e la snervi; e il poeta sostituendo in suo luogo
un’altra espressione men robusta, forse anche men propria ma nuova, otterrà un
buon effetto sulla fantasia del lettore, ci sveglierà quell’immagine che l’altra
espressione non avrebbe potuto eccitare; e la sua frase sarà veramente più
efficace, non per se stessa, ma per la circostanza dell’esser nuova.
Nelle
poesie del Monti (specialmente nelle Cantiche) sono osservabili la [14] bellezza
novità efficacia delle imagini, particolarmente sublimi, ma anche di ogni altro
genere, la mollezza e dirò così sveltezza, agilità, disinvoltura dell’espressione;
la gran felicità nell’esprimere cose e imagini difficilissime, la disinvolta e
spedita nobiltà dello stile, e quella data colla scelta e collocamento delle
parole (o coll’uno o l’altra separatamente) a cose e imagini per se stesse
ignobili o quasi; la sublimità e grandezza delle imaginazioni fantastiche, la
grazia e forza del dipingere, la facilità e felicità di certe rime
disparatissime, come di qualche nome proprio, lontanissimo dell’argomento,
condottovi con mirabile franchezza e disinvoltura, (nella qual facilità ebbe il
Monti gran precursore, oltre a Dante il Menzini nelle Satire); l’efficacia di
molte espressioni acquistata colla novità ec. ec. le quali cose tutte fanno uno
stile suo proprio, elegante, (la quale eleganza, la qual nobiltà ec. è anche
molto spesso acquistata con acconce parole latine destrissimamente,
disinvoltamente, e morbidamente insinuate nella composizione) efficace, nobile,
proprio, e un genere di poesia che si può dire originale, avendo molte tinte
che non si vedono in quello di Dante sempre più feroce, e quanto allo stile, di
raro così molle e pieghevole e armonioso e disinvolto e grazioso e anche
delicato ec. ec.; la sicurezza e franchezza del tocco sia quanto all’espressione
sia quanto al concetto alle immagini ec.
Gran
verità, ma bisogna ponderarle bene. La ragione è nemica d’ogni grandezza: la
ragione è nemica della natura: la natura è grande, la ragione è piccola. Voglio
dire che un uomo tanto meno o tanto più difficilmente sarà grande quanto più
sarà dominato dalla ragione: che pochi possono esser grandi (e nelle arti e
nella poesia forse nessuno) se non sono dominati dalle illusioni. Queste viene
che quelle cose che noi chiamiamo grandi per es. un’impresa, d’ordinario sono
fuori dell’ordine, e consistono in un certo disordine: ora questo disordine è
condannato dalla ragione. Esempio: l’impresa d’Alessandro: tutta illusione. Lo
straordinario ci par grande: se sia poi più grande dell’ordinario astrattamente
parlando, non lo so: forse anche qualche volta sarà più piccolo assai in riga
astratta, e quest’uomo strano e celebre messo a tutto rigore a confronto con un
altro ordinario ed oscuro si troverà minore: nondimeno, perchè è straordinario
si chiama grande: anche la piccolezza quando è straordinaria si crede e si
chiama grandezza. Tutto questo la ragione non lo comporta: e noi siamo nel
secolo della ragione: (non per altro se non perchè il mondo più vecchio ha più
sperienza e freddezza) e pochi ora possono essere e sono gli uomini grandi,
segnatamente nelle arti. Anche chi è veramente grande, sa pesare adesso e conoscere
la sua grandezza, sa sviscerare a sangue freddo il suo carattere, esaminare il
merito delle sue azioni, pronosticare sopra di se, scrivere minutamente colle
più argute e profonde riflessioni la sua vita: nemici grandissimi, ostacoli
terribili alla grandezza: che anche l’illusioni ora si conoscono
chiarissimamente esser tali, e si fomentano con una certa [15] compiacenza
di se stesse, sapendo però benissimo quello che sono. Ora come è possibile che
sieno durevoli e forti quanto basta, essendo così scoperte? e che muovano a
grandi cose? e senza le illusioni qual grandezza ci può essere o sperarsi? (Un
esempio di quando la ragione è in contrasto colla natura. Questo malato è
assolutamente sfidato e morrà di certo fra pochi giorni. I suoi parenti per alimentarlo
come richiede la malattia in questi giorni, si scomoderanno realmente nelle
sostanze: essi ne soffriranno danno vero anche dopo morto il malato: e il
malato non ne avrà nessun vantaggio e forse anche danno perchè soffrirà più
tempo. Che cosa dice la nuda e secca ragione? Sei un pazzo se l’alimenti. Che
cosa dice la natura? Sei un barbaro e uno scellerato se per alimentarlo non fai
e non soffri il possibile. È da notare che la religione si mette dalla parte
della natura). La natura dunque è quella che spinge i grandi uomini alle grandi
azioni. Ma la ragione li ritira: e però la ragione è nemica della natura; e la
natura è grande, e la ragione è piccola. Altra prova che la ragione è spesso
nemica della natura, si cava dall’utilità (così per la salute come per tutto il
resto) della fatica a cui la natura ripugna e così dalla ripugnanza della
natura a cento altre cose o necessarie o utilissime e però consigliate dalla
ragione, e per lo contrario dall’inclinazione della natura a moltissime altre o
dannose o inutili o proibite, illecite, e condannate dalla ragione: e la natura
spesso tende con questi appetiti a danneggiare e a distrugger se stessa.
Finisco
in questo punto di leggere nello Spettatore n.91, le Osservazioni di
Lodovico di Breme sopra la poesia moderna o romantica che la vogliamo chiamare,
e perchè ci ho veduto una serie di ragionamenti che può imbrogliare e
inquietare, e io per mia natura non sono lontano dal dubbio anche sopra le cose
credute indubitabili, però avendo nella mente le risposte che a quei
ragionamenti si possono e debbono fare, per mia quiete le scrivo. Vuole lo
scrittore (come tutti i romantici) che la poesia moderna sia fondata sull’ideale
che egli chiama patetico e più comunemente si dice sentimentale, e distingue
con ragione il patetico dal malinconico, essendo il patetico, com’egli dice,
quella profondità di sentimento che si prova dai cuori sensitivi, col mezzo
dell’impressione che fa sui sensi qualche cosa della natura, p.e. la campana
del luogo natìo, (così dic’egli) e io aggiungo la vista di una campagna, di una
torre diroccata ec. ec. Questa è insomma la differenza che egli vuol che sia
tra la poesia moderna e l’antica, chè gli antichi non provavano questi
sentimenti, o molto meno di noi; onde noi secondo lui siamo in questo superiori
agli antichi, e siccome in questo, secondo lui consiste veramente la poesia,
però noi siamo più poeti infinitamente che gli antichi. (E questa è la poesia
dello Chateaubriand del Delille del Saint-Pierre ec. ec. per non parlare dei
romantici, che forse anche in qualche cosa differiscono ec. E questo patetico è
quello che i francesi chiamano sensibilité e noi potremmo chiamare
sensitività). Or dunque bisogna eccitare questo patetico, questa profondità di
sentimento nei cuori: e qui, com’è naturale, consisterà la somma arte del
poeta. E qui è dove il Breme e tutti quanti i romantici e i Chateaubriandisti
ec. ec. scappano di strada. Che cosa è che eccita questi sentimenti negli
uomini? La natura, purissima, tal qual’è, tal quale la vedevano gli antichi: le
circostanze, naturali, non proccurate mica a bella posta, ma venute
spontaneamente: quell’albero, quell’uccello, quel canto, quell’edifizio, quella
selva, quel monte, [16] tutto da per se, senz’artifizio, e senza che
questo monte sappia in nessunissimo modo di dover eccitare questi sentimenti,
nè ch’altri ci aggiunga perchè li possa eccitare, nessun’arte ec. ec. In somma
questi oggetti, insomma la natura da per se e per propria forza insita in lei,
e non tolta in prestito da nessuna cosa, sveglia questi sentimenti. Ora che
faceano gli antichi? dipingevano così semplicissimamente la natura, e quegli
oggetti e quelle circostanze che svegliano per propria forza questi sentimenti,
e li sapevano dipingere e imitare in maniera che noi li vediamo questi stessi
oggetti nei versi loro, cioè ci pare di vederli, per quanto è possibile, quali
sono in natura, e perchè in natura ci destano quei sentimenti, anche dipinti e
imitati con tanta perfezione ce li destano egualmente, tanto più che il poeta
ha scelti gli oggetti, gli ha posti nel loro vero lume, e coll’arte sua ci ha
preparati a riceverne quell’impressione, dovechè in natura, e gli oggetti di
qualunque specie sono confusi insieme, e in vederli spessissimo non ci si bada,
(qui cade la gran facoltà delle arti imitative di fare per lo straordinario
modo in cui presentano gli oggetti comuni, vale a dire così imitati, che si
considerino nella poesia, dovechè nella realtà non si consideravano, e se ne
traggano quelle riflessioni ec. ec. che nella realtà per esser comuni non
somministravano ec. ec. come il Gravina nella Ragion poet.) e bisogna poi
perchè producano quei tali sentimenti andarli a prendere pel loro verso: ed
ecco ottenuto dagli antichi il grand’effetto, che domandano i romantici, ed
ottenuto in modo che ci rapiscono e ci sublimano e c’immergono in un mare di
dolcezza, e tutte le età e tutti i secoli, e tutti i grandi uomini e poeti che
son venuti dopo di loro, ne sono testimoni. Ma che? quando questi poeti,
imitavano così la natura, e preparavano questa piena di sentimenti ai lettori,
essi stessi o non la provavano, o non dicevano di provarla; semplicissimamente,
come pastorelli, descrivevano quel che vedevano, e non ci aggiugnevano niente
del loro; ecco il gran peccato della poesia antica, per cui, non è più poesia,
e i moderni vincono a cento doppi gli antichi ec. ec. E non si avvedono i
romantici, che se questi sentimenti son prodotti dalla nuda natura, per
destarli bisogna imitare la nuda natura, e quei semplici e innocenti oggetti,
che per loro propria forza, inconsapevoli producono nel nostro animo
quegli effetti, bisogna trasportarli come sono nè più nè meno nella poesia, e
che così bene e divinamente imitati, aggiuntaci la maraviglia e l’attenzione
alle minute parti loro che nella realtà non si notavano, e nella imitazione si
notano, è forza che destino in noi questi stessissimi sentimenti che costoro
vanno cercando, questi sentimenti che costoro non ci sanno di grandissima lunga
destare; e che il poeta quanto più parla in persona propria e quanto più
aggiunge di suo, tanto meno imita, (cosa già notata da Aristotele, al quale
volendo o non volendo senz’avvedersene si ritorna) e che il sentimentale non è
prodotto dal sentimentale, ma dalla natura, qual ella è, e la natura qual
ella è bisogna imitare, ed hanno imitata gli antichi, onde una similitudine
d’Omero semplicissima senza spasimi e senza svenimenti, e un’ode d’Anacreonte,
vi destano una folla di fantasie, e vi riempiono la mente e il cuore senza
paragone più che cento mila versi sentimentali; perchè quivi parla la natura, e
qui parla il poeta: e non si [17] avvedono che appunto questo grand’ideale
dei tempi nostri, questo conoscere così intimamente il cuor nostro, questo
analizzarne, prevederne, distinguerne ad uno ad uno tutti i più minuti affetti,
quest’arte insomma psicologica, distrugge l’illusione senza cui non ci sarà
poesia in sempiterno, distrugge la grandezza dell’animo e delle azioni; (v.
quel che ho detto in altro pensiero) e che mentre l’uomo (preso in grande) si
allontana da quella puerizia, in cui tutto è singolare e maraviglioso, in cui l’immaginazione
par che non abbia confini, da quella puerizia che così era propria del mondo a
tempo degli antichi, come è propria di ciascun uomo al suo tempo, perde la
capacità di esser sedotto, diventa artificioso e malizioso, non sa più
palpitare per una cosa che conosce vana, cade tra le branche della ragione, e
se anche palpita (perchè il cuor nostro non è cangiato ma la mente sola),
questa benedetta mente gli va a ricercare tutti i secreti di questo palpito, e
svanisce ogn’ispirazione, svanisce ogni poesia; e non si avvedono che s’è
perduto il linguaggio della natura, e che questo sentimentale non è altro che l’invecchiamento
dell’animo nostro, e non ci permette più di parlare se non con arte, e che
quella santa semplicità, che dalla natura non può sparire perchè la natura coll’uomo
non invecchia, e la qual sola ci può destare quei veri e dolci sentimenti che
andiamo cercando, non è più propria di noi come era propria degli antichi, e
che però per parlare come questa semplicità parla, e come insegna la natura, e
destare quei sentimenti che la sola natura può destare, è forza in questo
tristissimo secolo di ragione e di lume, che fuggiamo da noi stessi, e vediamo
come parlavano gli antichi che erano ancora fanciulli, e con occhi non
maliziosi nè curiosacci ma ingenui e purissimi vedevano la santa natura e la
dipingevano: e insomma non si avvedono che essi amici della natura sola,
vengono in effetto a predicar l’arte, e noi amici dell’arte veniamo verissimamente
a predicar la natura. Qui cadrebbe in acconcio il discorrere dell’affettazione
che è il vizio generale nelle arti belle e abbraccia quasi tutti i vizi, e come
il sentimentale sia facilissimamente pura affettazione, e come spessissimo
invece di destare quei sentimenti che vorrebbe, gli spenga, quando forse quel
tale oggetto naturale o veduto o descritto li veniva destando, e come questi
sentimenti sieno d’infinita verecondia ec. ec. Ma quel ridurre che fa il Breme
la poesia moderna al solo patetico (distinguetelo pur quanto volete dal
malinconico come di sopra ho detto), quasi che il sublime, l’impetuoso, l’esultante,
il giubilante (so bene che anche la gioja può esser patetica, ma non nei casi
ch’io dico) il grazioso disinvolto e insomma quasi tutta la poesia degli
antichi, l’epopea, la lirica quando non è sentimentale, i cantici di trionfo,
le descrizioni delle battaglie, i salmi di Davidde le odi di Anacreonte ec. ec.
ec. non fosse poesia, o almeno ai moderni non paresse più tale, o almeno (non si
sa poi perchè, quando non si ammettano le due cose precedenti) dai moderni non
dovesse più esser coltivata; come non deve parere una pazzia difficile a
credere che sia caduta in testa d’un uomo savio? Dunque Virgilio non è poeta
altro che nel quarto dell’Eneide, e nell’episodio di Niso ed Eurialo, e che so
io? dunque [18] non ci sarà più altro che un solo genere di poesia? e in
uno stesso componimento non si dovrà più tenere altro che un tuono solo? (E
dopo tutto questo ci rinfacciano la monotonia delle favole antiche.) Ma che?
abbiamo mutato natura affatto? non c’è più gioia se non mezzo malinconica, non
c’è più ira, non c’è più grandezza e altezza di pensieri, senza quel condimento
di patetico ec. ec.? (E se la poesia è arte imitativa e il suo fine è il
dilettare, nè deve imitare una cosa sola, nè una sola cosa diletta ec. E in
genere non pare che il Breme faccia gran caso della natura e del fine della
poesia che consiste in dilettare col mezzo della maraviglia prodotta dall’imitazione
ec.) Ma queste son follie, di cui è soverchio parlare. A tener dietro con
diligenza ai ragionamenti del Breme ci si scopre una contraddizione nascosta,
ma realissima e fondamentale così del suo sistema come del romantico. Da
principio dice che gli antichi credevano tutto e si persuadevano di mille
pazzie, che l’ignoranza il timore i pregiudizi e somministravano allora gran
materia alla loro poesia, e non possono più somministrarne ai tempi nostri;
insomma evidentemente par che venga a conchiudere, che la poesia nostra bisogna
che sia ragionevole, e in proporzione coi lumi dell’età nostra, e in fatti dice
che ce la debbono somministrare la religione, la filosofia, le leggi di società
ec. ec. E così dicono i romantici. Ma se così è, ecco l’illusione sparita, e se
il poeta non può illudere non è più poeta, e una poesia ragionevole, è lo
stesso che dire una bestia ragionevole ec. ec. E i romantici, non che facciano
la poesia ragionevole, vanno in cerca di mille superstizioni e delle più pazze
cose che si possano mai pensare: il Breme poi dice che l’immaginazione anche al
presente ha la sua piena forza, e desidera di essere invasa rapita ec. e
ANCHE sedotta (qui vi voleva) purchè non da cose AL TUTTO arbitrarie
nè lontane da quel Vero ec. In queste parole e specialmente in quell’anche e in quell’al tutto, mi par di scorgere chiarissimamente l’angustia del
metafisico, che vedendo la linea del suo ragionamento torcersi e piegare, cerca
di rimediarci colle parole. Ma poichè finalmente affermate che la nostra
immaginazione ha bisogno d’esser sedotta, (e in seguito poi lo conferma il
Breme senza nessuna dubitazione in parecchi altri luoghi) il vostro
ragionamento va tutto a terra: chè quando uno di noi si mette a leggere una
poesia sapendo di dover esser sedotto e desiderando di esserlo, tanto crede al
più falso quanto al meno falso, tanto crede al Milton quanto a Omero, tanto
agli spettri del Bürger quanto all’inferno dell’Odissea e dell’Eneide; e quel
dire che le finzioni non debbono essere al tutto arbitrarie è una
miseria, quasi che la immaginativa dei moderni potesse essere ingannata di
tanto solo, e non più, e l’intelletto nostro nel mezzo della lettura e dell’inganno
della fantasia non comprendesse egualmente la falsità delle invenzioni del
Klopstock e di quelle di Omero e di Virgilio. Il tutto sta se l’immaginazione
nostra possa e debba esser sedotta dalla poesia o no, se sì tutti i vostri
ragionamenti seguenti sono attaccati collo sputo, e il poeta deve pensare a
sedurre come crede meglio, e s’egli non sa sedurre, la colpa è sua, e non del
genere che ha scelto. Un’altra svista del Breme (e probabilmente di tutti i
suoi settari) è dove parlando della mitologia greca, dice che la natura è vita,
che la fantasia umana e la poesia si compiace in immaginare che tutto viva,
cioè conosca di essere, e qui si diffonde in magnificare [19] questa
sorgente della poesia moderna che consiste in non guardare nessuna cosa con
noncuranza, in attribuir senso a ogni cosa e riconoscer vita sotto tutte le
possibili forme, in avvivare insomma la natura col mezzo d’idee
poeticamente analoghe ec. ec. Dunque non solo concede che la natura si
avvivi, ma essenzialmente lo vuole, e dice di contrapporre questo sistema
vitale al mitologico ec. e per esempio di questo avvivamento diverso da
quello che faceano i mitologi, si serve di un passo di lord Byron dove
attribuisce sospiri fragranti alla rosa innamorata. Ma che? non vuole
che si avvivi la natura così individualmente, diremo, e mediatamente, come i
mitologi faceano, personificando affetti e numi e piante ec. ma la natura
immediatamente, senza convertirla in individui, e riconoscendo vita sotto
tutte le forme e non esclusivamente sotto l’umana, in somma che tutto sia animato e sensitivo, non che siano uomini dappertutto. Ma non si avvede il
Breme, non si avvedono i romantici che questi che debbono avvivare la natura,
questi poeti, son uomini, e non possono naturalmente e per intimo impulso
concepir vita nelle cose, se non umana, e che questo dare agli oggetti
inanimati, agli Dei, e fino ai propri affetti, pensieri e forme e affetti
umani, è così naturale all’uomo che per levargli questo vizio bisognerebbe
rifarlo; non si avvede che il suppor vita nelle cose, p.e. inanimate, diversa
dalla nostra, ripugna di maniera al nostro istinto e alla nostra natura, che
appartiene appuntino a quello che si chiama cattivo gusto, al gusto che si
chiama gotico, che si chiama cinese; che il poeta non deve seguir nè la ragione
nè la metafisica (posto pur che la ragione ami meglio nelle cose che non
vivono, una vita diversa dalla nostra che uguale, e così discorrete degli
Dei ec.), ma la natura e l’istinto, e che per quanto si può argomentare da
questo istinto, il cavallo p.e. se avesse ragione e immaginativa, attribuirebbe
a Dio, (il cavallo sarebbe allora ragionevole, onde nessuno si scandalizzi di
quel che dirò) e alle cose inanimate ec. ec. la figura e gli affetti e i
pensieri del cavallo, e così gli altri animali; (e questo pensiero non è mio ma
dell’antico Senofane, perchè molte cose son vecchie che si credono nuove, e
molta sapienza è antica alla quale si crede che quei cervelli non arrivassero)
non si avvede che se la rosa sospira ed è innamorata, la rosa nella mente del
poeta non è mica altro che una donna; e che voler supporre che questa rosa
viva, e non viva come noi, se è possibile al metafisico, è impossibilissimo al
poeta e agli uditori del poeta, che non sono mica i metafisici ma il volgo; e
non si avvede che lo stesso lord Byron non ha saputo alla sua rosa e tutti i
romantici non sapranno in eterno a nessunissima cosa dare altri affetti o sensi
che umani, perchè diversi affetti o sensi appena ci sappiamo persuadere che ci
possano essere, non che possiamo immaginarci quali siano. ec. ec. Quanto all’arte
di poetare e di scrivere che il Breme pare che disprezzi per la maggior parte,
mi sbrigo in due parole. Questo imitar la natura questo destare i sentimenti
che voi altri volete, è facile o difficile? ognuno che li sente è sicuro purchè
si metta a scrivere di comunicarli subito agli altri, o no? Se sì, me ne
rallegro, e avrò piacere di vederne l’esperimento; se no, se questa cosa è tra
le difficili difficilissima, [20] se quand’uno ha concepito, non ha
fatto appena metà del cammino, se mille e centomila che provando affetti e
sentendo vivamente, hanno scritto, non sono riusciti a muovere negli altri gli
stessi affetti, e non si leggono da nessuno, se infiniti esempi e ragioni
provano quanta sia la forza dello stile, e come una stessa immagine esposta da
un poeta di vaglia faccia grand’effetto, e da un inferiore nessuno, se Virgilio
senz’arte non sarebbe stato Virgilio, se in poesia un bel corpo con vesti di
cencio, dico, bei sensi senza bello stile ordine scelta ec. non si soffrono e
non si leggono e sono condannati non mica dai pregiudizi ma dal tempo giudice
incorrotto e inappellabile, se colla proprietà eleganza nobiltà ec. ec. ec.
delle parole e della lingua e delle idee, colla scelta coll’ordine colla
collocazione ec. ec. infinite necessarissime doti si procacciano alla poesia; c’è
bisogno dell’arte, e di grandissimo studio dell’arte, in questo nostro tempo
massimamente, per le ragioni che più volte in questi pensieri ho scritto. E noi
vediamo che i grandi scrittori quelli che tutto il mondo venera, quelli così
infinitamente superiori ai pregiudizi, quelli finalmente i quali se non sono
veramente ed eternamente grandi, non c’è più cosa grande nè speranza di
diventar grande, noi vediamo che Cicerone (e l’eloquenza è cosa molto simile
alla poesia) studiò profondissimamente l’arte sua e la sua lingua e la
gramatica e gli esemplari greci quanto mai si può pensare, ec. e con tutto
questo studio non diventò già un uomo da nulla nè un pedante nè un imitatore e
che so io, ma diventò un Cicerone: e se Cicerone come scrittore e oratore, o
signor Breme, non vi quadra, come nè anche Pindaro nè Orazio, vi do subito la
buona notte, e mi dispiace di non averlo saputo prima. (E già di sopra s’è
osservato che il primitivo bisogna impararlo dagli antichi.) Non si ricorda il
Breme di quella osservazione filosofica che è pur vecchia, dico, che i mezzi più
semplici e veri e sicuri sono gli ultimi che gli uomini trovano, così nelle
arti e nei mestieri come nelle cose usuali della vita, e così in tutto. E così
chi sente e vuol esprimere i moti del suo cuore ec. l’ultima cosa a cui arriva
è la semplicità, e la naturalezza, e la prima cosa è l’artifizio e l’affettazione,
e chi non ha studiato e non ha letto, e insomma come costoro dicono è immune
dai pregiudizi dell’arte, è innocente ec. non iscrive mica con semplicità, ma
tutto all’opposto: e lo vediamo nei fanciulli che per le prime volte si mettono
a comporre: non iscrivono mica con semplicità e naturalezza, che se questo
fosse, i migliori scritti sarebbero quelli dei fanciulli: ma per contrario non
ci si vede altro che esagerazioni e affettazioni e ricercatezze benchè
grossolane, e quella semplicità che v’è, non è semplicità ma fanciullaggine:
così dite di certe canzoni volgari ec. ec. che per un certo verso son semplici,
ma mettete un poco quella semplicità con quella di Anacreonte che pare il non
plus ultra, e vedete se vi pare che si possa pur chiamare semplicità. Onde il
fine dell’arte che costoro riprovano, non è mica l’arte, ma la natura, e il
sommo dell’arte è la naturalezza e il nasconder l’arte, che i principianti, o
gl’ignoranti non sanno nascondere, benchè n’hanno pochissima, ma quella
pochissima trasparisce, e tanto fa più stomaco quanto è più rozza: e i nove
anni d’Orazio dei quali il Breme si fa beffe, non sono mica per accrescer gli
artifizi del componimento, ma per diminuirli, o meglio, per celarli
accrescendoli, e insomma per avvicinarsi sempre più alla natura, che è il fine
di tutti quegli studi e di quelle emendazioni ec. di cui il Breme si burla, di
cui si burlano i romantici, contraddicendo a se stessi; che mentre [21] bestemmiano
l’arte e predicano la natura, non s’accorgono che la minor arte è minor natura.
Non
solamente bisogna che il poeta imiti e dipinga a perfezione la natura, ma anche
che la imiti e dipinga con naturalezza, anzi non imita la natura chi non la
imita con naturalezza. Però Ovidio che senza naturalezza la dipinge, cioè va
tanto dietro a quegli oggetti, che finalmente ce li presenta, e ce li fa anche
vedere e toccare e sentire, ma dopo infinito stento suo, (così che a lui
bisogna una pagina per farci veder quello che Dante ci fa vedere in una
terzina) e con una più tosto pertinacia ch’efficacia; presto sazia, e inoltre
non è molto piacevole, perchè non sa nasconder l’arte, e con quel tanto
aggirarsi intorno agli oggetti (non solo per una pericolosa intemperanza e
incontentabilità, ma anche perchè egli senza molti tratti non ci sa subito
disegnar la figura, e se non fosse lungo non sarebbe evidente) fa manifesta la
diligenza, e la diligenza nei poeti è contraria alla naturalezza. Quello che
nei poeti dee parer di vedere, oltre gli oggetti imitati, è una bella
negligenza, e questa è quella che vediamo negli antichi, maestri di questa
necessarissima e sostanziale arte, questa è quella che vediamo nell’Ariosto,
Petrarca ec. questa è quella che pur troppo manca anche ai migliori e classici
tra i moderni, questa è quella che col sentimentale e col sistema del Breme, e
nelle poesie moderne de’ francesi, non si ottiene, e poi non si ottiene; chè
questo stesso sentimentale scopre una certa diligenza ec. scopre insomma il
poeta che parla ec. In Ovidio si vede in somma che vuol dipingere, e far quello
che colle parole è così difficile, mostrar la figura ec. e si vede che ci si
mette; in Dante nò: pare che voglia raccontare e far quello che colle parole è
facile ed è l’uso ordinario delle parole, e dipinge squisitamente, e tuttavia
non si vede che ci si metta, non indica questa circostanziola e quell’altra, e alzava
la mano e la stringeva e si voltava un tantino e che so io, (come fanno i
romantici descrittori, e in genere questi poeti descrittivi francesi o inglesi,
così anche prose ec. tanto in voga ultimamente) insomma in lui c’è la
negligenza, in Ovidio no.
Sì come dopo la procella oscura
Canticchiando gli augelli escon
del loco
Dove
cacciogli il vento (nembo) e la paura;
E il villanel che
presso al patrio foco
Sta
sospirando il sol, si riconforta (si rasserena)
Sentendo
il dolce canto e il dolce gioco;
Grandissima
parte dell’opere utili proccurano il piacere mediatamente, cioè mostrando come
ce lo possiamo proccurare: la poesia immediatamente, cioè somministrandocelo.
Cercava
Longino (nel fine del trattato del Sublime) perchè al suo tempo ci fosse
tanta scarsezza di anime grandi e portava per ragione parte la fine delle
repubbliche e della libertà, parte l’avarizia, la lussuria e l’ignavia. Ora
queste non sono madri ma sorelle di quell’effetto di cui parliamo. E questo e
quelle derivano dai progressi della ragione e della civiltà, e dalla mancanza o
indebolimento delle illusioni, senza le quali non ci sarà quasi mai grandezza
di pensieri nè forza e impeto e ardore d’animo, nè grandi azioni che per lo più
sono pazzie. Quando ognuno è bene illuminato in vece dei diletti e dei beni
vani come sono la gloria l’amor della patria la libertà ec. ec. cerca i solidi
cioè i piaceri carnali osceni [22] ec. in somma terrestri, cerca l’utile
suo proprio sia consistente nel danaro o altro, diventa egoista
necessariamente, nè si vuol sacrificare per sostanze immaginarie nè
comprometter se per gli altri nè mettere a ripentaglio un bene maggiore come la
vita le sostanze ec. per un minore, come la lode ec. (lasciamo stare che la
civiltà fa gli uomini tutti simili gli uni agli altri, togliendo e
perseguitando la singolarità, e distribuendo i lumi e le qualità buone non
accresce la massa, ma la sparte, sì che ridotta in piccole porzioni fa piccoli
effetti.) Quindi l’avarizia, la lussuria e l’ignavia, e da queste la barbarie
che vien dopo l’eccesso dell’incivilimento. E però non c’è dubbio che i
progressi della ragione e lo spegnimento delle illusioni producono la barbarie,
e un popolo oltremodo illuminato non diventa mica civilissimo, come sognano i
filosofi del nostro tempo, la Staël ec. ma barbaro; al che noi c’incamminiamo a
gran passi e quasi siamo arrivati. La più gran nemica della barbarie non è la
ragione ma la natura: (seguìta però a dovere) essa ci somministra le illusioni
che quando sono nel loro punto fanno un popolo veramente civile, e certo
nessuno chiamerà barbari i Romani combattenti i Cartaginesi, nè i Greci alle
Termopile, quantunque quel tempo fosse pieno di ardentissime illusioni, e
pochissimo filosofico presso ambedue i popoli. Le illusioni sono in natura,
inerenti al sistema del mondo, tolte via affatto o quasi affatto, l’uomo è
snaturato; ogni popolo snaturato è barbaro, non potendo più correre le cose
come vuole il sistema del mondo. La ragione è un lume; la Natura vuol essere
illuminata dalla ragione non incendiata. Come io dico accadde appresso i Greci
e i Romani: al tempo di Longino già erano quasi barbari, eppure non c’era stata
nessuna irruzione straniera; dalla terra stessa loro nacque la barbarie, da
quelle civilissime terre, perchè la civiltà era eccessiva. Cicerone era il
predicatore delle illusioni. Vedete le Filippiche principalmente, ma poi
tutte le altre Orazioni sue politiche; sempre sta in persuadere i Romani a
operare illusamente, sempre l’esempio de’ maggiori, la gloria, la libertà, la
patria, meglio la morte che il servizio; che vergogna è questa? Antonio un
tiranno di questa razza ancora vive ec. E intanto Antonio che sarebbe stato
pugnalato nel foro o nella curia in altri tempi, tiranno vergognosissimo, non
si poteva ottenere in Roma, essendoci tante armate contro di lui, tanto motivo
di sperare che sarebbe vinto, che fosse dichiarato nemico della patria:
calcolavano cercavano ec. quello che in altri tempi senza un istante di
deliberazione sarebbe stato deciso a pieni voti. Cicerone predicava indarno,
non c’erano più le illusioni d’una volta, era venuta la ragione, non importava
un fico la patria la gloria il vantaggio degli altri dei posteri ec. eran fatti
egoisti, pesavano il proprio utile, consideravano quello che in un caso poteva
succedere, non più ardore, non impeto, non grandezza d’animo, l’esempio de’
maggiori era una frivolezza [23] in quei tempi tanto diversi: così perderono
la libertà, non si arrivò a conservare e difendere quello che pur Bruto per un
avanzo d’illusioni aveva fatto, vennero gl’imperatori, crebbe la lussuria e l’ignavia,
e poco dopo con tanto più filosofia, libri scienza esperienza storia, erano
barbari.
E la
ragione facendo naturalmente amici dell’utile proprio, e togliendo le illusioni
che ci legano gli uni agli altri, scioglie assolutamente la società, e
inferocisce le persone.
Anche l’amore
della maraviglia par che si debba ridurre all’amore dello straordinario e all’odio
della noia ch’è prodotta dall’uniformità.
Vedendo
meco viaggiar la luna.
Non è
favoloso ma ragionevole e vero il porre i tempi Eroici tra gli antichissimi. L’eroismo
e il sagrifizio di se stesso e la gloriosa morte ec. di cui parla il Breme, Spettatore,
p. 47, finiscono colle illusioni, e non è un minchione che le voglia in se, in
tempi di ragione e di filosofia, come sono questi, ch’essendo tali, sono anche
quello ch’io dico cioè privi affatto di eroismo. ec.
Quell’affetto
nella lirica che cagiona l’eloquenza, e abbagliando meno persuade e muove più,
e più dolcemente massime nel tenero, non si trova in nessun lirico, nè antico
nè moderno se non nel Petrarca, almeno almeno in quel grado: e Orazio
quantunque forse sia superiore nelle immagini e nelle sentenze, in questo
affetto ed eloquenza e copia non può pur venire al paragone col Petrarca: il
cui stile ha in oltre (io non parlo qui solo delle canzoni amorose ma anche
singolarmente e nominatamente delle tre liriche: O aspettata in ciel beata e
bella, Spirto gentil che quelle membra reggi, Italia mia ec.) ha una
semplicità e candidezza sua propria, che però si piega e si accomoda
mirabilmente alla nobiltà e magnificenza del dire, (come in quel: Pon mente
al temerario ardir di Serse ec.) così in tutto il corpo e continuatamente,
come nelle varie parti e in quelle dove egli si alza a maggior sublimità e
nobiltà che per l’ordinario: si piega alle sentenze (come in quel: Rade
volte addivien che a l’alte imprese ec.) quantunque di quelle spiccate non
n’abbia gran fatto in quelle tre canzoni: si piega ottimamente alle immagini
delle quali le tre canzoni abbondano e sono innestate nello stile e formanti il
sangue di esso ec. (come: Al qual come si legge, Mario aperse sì ‘l fianco
ec. Di lor vene ove il nostro ferro mise ec. Le man le avess’io
avvolte entro i capegli ec.)
Il Testi
ha dicitura competentemente poetica ed elegante, non manca d’immagini, ha anche
qualche immaginetta graziosa (come dove dice di Davidde: E allor che in
Oriente il dì nascea Usciva a pascer l’agne Su la costa del monte o lungo il
rio, nella Canzone Nelle squallide spiagge ove Acheronte) ha
sufficiente grandiosità ed anche qualche eloquenza, le sentenze non sono mal
collocate nè esposte, quantunque non nuove, riesce anche benino assai nelle
Canzone filosofiche all’Oraziana, imita spesso e qualche volta quasi traduce
Orazio, ma non ha l’animatezza la scolpitezza, e la concisa nervosità e
muscolosità ed energia e lo spirito del suo stile, nè molta originalità e
novità, nè proprio proprio sublimità di concetti e d’invenzioni. Ma tutti i
pregi che ho detto, salvo solamente la grandiosità e l’eloquenza, risplendono
massimamente nelle Canzoni della prima parte, che sono per la più parte
filosofiche e Oraziane, dove lo stile è castigato e non manca leggiadria di
maniere e di concetti, perchè nelle altre parti, quantunque s’innalzi
maggiormente, e metta fuori più forza, e facondia, e più energiche immagini e
in somma sia più pindarico, è difficile trovar canzone che non sia malamente e sporcamente
e visibilmente e tenacemente imbrattata della pece del suo secolo, che nella
prima parte appena appena si scorge qua e là come macchiuzze, e forse qualche
canzona n’è libera affatto e può parere d’un altro secolo. In oltre la dicitura [24] diventa meno elegante e pulita e spesso le voci e le locuzioni le
metafore i traslati sono prosaici. In somma si vede molto il febbricitante e il
mal lavorato e mal limato del seicento.
Son
proprio esclusivamente del Petrarca, in quanto all’affetto, non solo la copia,
ma anche quei movimenti pieni toè p–Jouw e quelle immagini affettuose (come: E la povera gente sbigottita ec.) e tutto quello che forma la vera e animata e calda eloquenza. E dall’influsso
che ha il cuore nella poesia del Petrarca viene la mollezza e quasi untuosità
come d’olio soavissimo delle sue Canzoni, (anche nominatamente quelle sull’Italia)
e che le odi degli altri appetto alle sue paiano asciutte e dure e aride, non
mancando a lui la sublimità degli altri e di più avendo quella morbidezza e
pastosità che è cagionata dal cuore.
Il
Filicaia va dietro al sublime e anche l’arriva, ma parlando sempre di cose
della nostra Religione ha tolto a imitare quel sommo sublime della
scrittura, e per questo sommo sublime si fa pregiare, che del resto, quando o
non lo cerca o non lo arriva, non ha quasi cosa ch’esca gran fatto dall’ordinario,
non ha punto di leggiadria mai, non ha in nessun modo la varietà del Testi ec.
ma anche dove ha quel sommo sublime di stile simile allo scritturale e
profetico, non è molto piacevole per cagione della monotonia delle sue Canzoni
e perchè le impressioni di quel sommo sublime essendo troppo veementi non
possono durar gran tempo e si spengono, e il lettore ci si assuefà, sì che con
quella monotonia, viene a rendersi il sublime inefficace, e le odi stucchevolucce.
Le migliori sono quelle per l’assedio e la liberazione di Vienna, e tra queste
a mio giudizio quella che incomincia Le corde d’oro elette. Sono anche
queste macchiate qua e là del seicentismo. Le parole, locuzioni, metafore
prosaiche non mancano, come quello: A tua Pietà m’appello della prima
Canzone, e nella seconda: E al tuo soldo arrolata è la vittoria.
Nuova
strada per gl’italiani s’aperse il Chiabrera, solo veramente Pindarico, non
escluso punto Orazio, sublime alla greca Omerica e Pindarica, cioè dentro
grandi ma giusti limiti, e non all’orientale come il Filicaja, sublime, colla
conveniente e greca semplicità, per mezzo dell’accozzamento tÇn lhmm‹tvn, come dice Longino, cioè di certe
parti della cosa che unite tutte insieme formano rapidamente il sublime, e un
sublime come dico, rapido inaffettato e in somma pindarico; robusto nelle
immagini, sufficientemente fecondo nell’invenzione e nelle novità, facile
appunto come Pindaro a riscaldarsi infiammarsi, sublimarsi anche per le cose
tenui, e dar loro al primo tocco un’aria grande ed eccelsa. Fu ardito caldo
veemente urtantesi nelle cose, ardito nelle voci (come instellarsi inarenare)
nelle locuzioni nelle costruzioni, nel trarre dal greco e latino le forme così
de’ sentimenti, (come: Canz. 70, Eroica: Meco non vo’ che vaglia sì
sconsigliata voce, e altrove: A me non scenda in cor sì ria parola:
e nota ch’io dico le forme de’ sentimenti e non i sentimenti) come delle
parole, nel che alle volte fu felice, come: Canz. Eroica 23: Qual non fe
scempio sanguinoso acerbo L’aspro cor dell’Eacide superbo? Canz. Eroica
71: Sol fe contrasto il gran sangue di Guisa ec. Imitò anche bene i
greci e Pindaro e Orazio nell’economia del comportamento. E certo alle volte è
nobilissimo tanto pel sentimento quanto per le parole: ma pochissimi pezzi
finiscono di piacere; non arriva quasi mai non ostante quello che s’è detto del
suo stile estrinseco alla felicità d’espressione, e alla bellezza della
composizione delle parole d’Orazio, è oscuro assai spesso per le costruzioni
gli equivoci (non già voluti, come i seicentisti, ma non avvertiti o
trascurati) la soppressione delle idee intermedie ne’ passaggi (se ben questa è
naturale, perchè [25] il poeta fervido quantunque non passi mai da un
pensiero all’altro senza una qualche cagione e occasione che è come il legame
delle diverse idee, nondimeno questo legame essendo sottilissimo lo salta
facilmente, o anche non saltandolo affatto, il lettore non lo arriva a vedere)
e anche nel passare p.e. dalle premesse alla conseguenza ec. insomma è sovente
sconnesso, (ma questa potrebbe anche essere una lode per la verità dell’imitazione
dell’affetto e dell’estro, e tutto questo difetto dell’oscurità lo ha comune
con Pindaro) ha qualche macchia di seicentisteria, che però è rara e non
farebbe gran caso; ha qualche metafora non seicentesca affatto, ma troppo
ardita, alla pindarica sì, ma soverchiamente ardita, come Canz. Eroica 14, dice
dell’armi di Toscana: Elle non tra i confin del patrio lito, Quasi belve in
covili, Ma fero udir gentili Per le strane foreste aspro ruggito: Canz.
Eroica 41, chiama le vele: le tessute penne; (se ben quella del ruggito
si potrebbe difendere colla similitudine che precede, delle belve, onde si
riferisse a quella, cioè la metafora non fosse più semplicemente delle armi
ruggenti, ma cambiate in fiere o assomigliate alle fiere e così ruggenti, per
una enallage pindarica) fa forza alla lingua nelle voci (come le composte alla
greca: ondisonante ec. che la nostra lingua non ama) nelle forme
trasportate dal greco e latino infelicemente, (giacchè non sempre anzi non
sovente è felice come ho detto di qualche volta) nelle locuzioni nelle
costruzioni; e quel ch’è più e che l’uccide, è disugualissimo ridondante di
pezzi deboli pel sentimento anzi anche di Canzoni o intere o quasi; di stile
per l’ordinario infelice lingua incolta (neglexit linguae cultum, dice
il Gravina nella lettera latina al Maffei, e così è) sì che non sono se non
rarissimi quei pezzi dei quali si possa dire tutto il bene, e in cui, quando
anche l’immagini e i sentimenti sieno perfetti il che non è tanto raro, l’esteriore
dello stile non abbia difetti che saltano grandissimamente all’occhio e
disgustano. Che s’egli avesse avuto scelta (delectum rerum et limam amisit,
dice verissimamente il Gravina l. c.) e lima (delle quali forse e massime della
seconda non era capace) sarebbe il più gran lirico pindarico che abbia
qualunque nazione antica e moderna, da non potersegli paragonare nè Orazio nè
verun altro eccetto lo stesso Pindaro. Questi difetti principalmente (di scelta
e di lima tanto per le cose che per le parole, giacchè gli altri accennati di
sopra non son tanto gravi, e già si sa che un gran poeta deve aver grandi
difetti, sì che se non fossero altro che quelli, io non dubiterei di tenerlo
tuttavia per un gran lirico) fecero che siccome era nato effettivamente il suo
lirico all’Italia, così anche le venne meno, giacchè non si può dire che sieno
buone poesie liriche i versi del Chiabrera, ma solamente che questi fu vero
poeta lirico.
Una
considerazion fina intorno all’arte dello scrivere è questa che alle volte, la
collocazione, diremo, fortuita delle parole, quantunque il senso dell’autore [26]
sia chiaro tuttavia a prima vista produca ne’ lettori un’altra idea, il
che, quando massime quest’idea non sia conveniente bisogna schivarlo, massime
in poesia dove il lettore è più sull’immaginare e più facile a creder di vedere
e che il poeta voglia fargli vedere quello ancora che il poeta non pensa o
anche non vorrebbe. Ecco un esempio Chiabrera Canz. lugubre 15. In morte di
Orazio Zanchini che comincia: Benchè di Dirce al fonte, strofe 3. verso
della Canz. 38, della strofa duodecimo e penultimo: Ora il bel crin si frange,
E sul tuo sasso piange. Si frange qui vuol dire si percuote, e intende
il poeta, colle mani ec. Il senso è chiaro, e quel si frange non ha che
far niente con sul tuo sasso, e n’è distinto quanto meglio si può dire.
Ma la collocazione casuale delle parole è tale, ch’io metto pegno che quanti
leggono la Canz. del Chiabrera colla mente così sull’aspettare immagini, a
prima giunta si figurano Firenze personificata (che di Firenze personificata
parla il Chiabrera) che percuota la testa e si franga il crine sul sasso del
Zanchini, quantunque immediatamente poi venga a ravvedersi e a comprendere
senza fatica l’intenzione del poeta ch’è manifesta. Ora, lasciando se l’immagine
ch’io dico sia conveniente o no, certo è che non è voluta dal poeta, e ch’egli
perciò deve schivare questa illusione quantunque momentanea (bastando che
queste parole del Chiabrera servano d’esempio senza bisogno che l’immagine sia
sconveniente) eccetto s’ella non gli piacesse come forse si potrebbe dare il
caso, ma questo non dev’essere se non quando l’immagine illusoria non nocia
alla vera e non ci sia bisogno di ravvedimento per veder questa seconda,
giacchè due immagini in una volta non si possono vedere, ma bensì una dopo l’altra
il che quando fosse, potrebbe anche il poeta lasciare e anche proccurare questa
illusione, dove pure non noccia al restante del contesto, perch’ella non fa danno,
e d’altra parte è bene che il lettore stia sempre tra le immagini. Quello che
dico del poeta s’intenda proporzionatamente anche degli altri scrittori. Anzi
questa sarebbe la sorgente di una grand’arte e di un grandissimo effetto
proccurando quel vago e quell’incerto ch’è tanto propriamente e sommamente
poetico, e destando immagini delle quali non sia evidente la ragione, ma quasi
nascosta, e tale ch’elle paiano accidentali, e non proccurate dal poeta in
nessun modo, ma quasi ispirate da cosa invisibile e incomprensibile e da quell’ineffabile
ondeggiamento del poeta che quando è veramente inspirato dalla natura dalla
campagna e da checchessia, non sa veramente com’esprimere quello che sente, se
non in modo vago e incerto, ed è perciò naturalissimo che le immagini che
destano le sue parole appariscano accidentali.
Le più belle canzoni del
Chiabrera non sono per la maggior parte altro che bellissimi abbozzi.
Che il
Filicaja seguisse lo stile profetico (così appunto dicevano quei due che
ora citerò) lo scrive anche il Redi nelle sue lettere, e similmente del Guidi
dice il Crescimbeni nella sua Vita che quantunque paia come il Chiabrera, aver
bevuto ai fonti greci, nondimeno molto sembra aver preso dall’Ebraico;
talchè la sua apparenza ha assai più del Profetico che del Pindarico, [27]
e soggiunge che in un certo libro si dice di lui che da alcune forme di
Dante, e del Chiabrera accoppiate con certi modi delle Orientali favelle ha
preso il suo stile. E aggiunge egli subito: E questa senza fallo è la
cagione, per la quale vien dato al carattere del Guidi il pregio di nuovo nel
nostro Idioma. E finalmente riferisce l’intenzione dello stesso Guidi,
intesa dalla di lui stessa bocca da esso Crescimbeni, e massime rispetto alla
traduzione delle sei Omelie che il Guidi fece per lasciare a’ posteri almeno
in ombra l’IMITAZIONE totale del carattere profetico anche rispetto agli
argomenti; cioè un genere di Poesia sacra, che si vedesse trattata col gusto
Davidico, e con l’entusiasmo de’ Profeti.
Emulo
impotente di Pindaro il Guidi cercò la grandezza e per trovarla si raccomandò
anche agli Orientali e tolse più forme e immagini dalla scrittura, ma gli mancò
la forza sufficiente di fantasia, nè in lui trovo nessuna novità se non per
rispetto al suo secolo, avendo sfuggito benchè non affatto le seicentisterie.
Nudo intierissimamente d’affetto, in verità non si può dire che abbia
disuguaglianze perchè tutte quante le sue canzoni sono coperte si può dire
ugualmente di uno strato di perfetta e formale mediocrità, e freddezza. Io non
so come si possa dire che abbia trasportato ne’ suoi versi il fuoco e l’entusiasmo
di Pindaro, (così la Biblioteca Italiana num. 8. Bibliografia)
quando io, lette tutte le sue canzoni mi trovo come un marmo: e si vede
bene ch’egli cerca di grandeggiare e d’innalzarsi, ma la sua grandezza nè si
communica col lettore innalzandolo, nè lo percuote e stordisce, restando non
dico gonfia (perchè in verità il suo difetto non è la turgidezza) ma vota e
senza effetto e questo per due cagioni. L’una la debolezza della sua fantasia,
che non gli suggeriva spontaneamente e copiosamente cose grandi, l’altra (che
in parte o tutta si riferisce alla prima e solamente è più speciale) che i suoi
sublimi che sono sparsi a larghissima mano per tutte le sue Canzoni non sono
formati rapidamente dalla scelta tÇn krvn lhmm‹tvn, come dice Longino, come fa
Pindaro e Omero e il Chiabrera, con che vengono ad ¤pipl®ttein il Lettore e te lo strascinano e sbalzano qua
e là stordito e confuso a voglia loro, ma è composto placidissimamente di
lunghe enumerazioni di cose di parti d’immagini accozzate e messe una dopo l’altra
ordinatamente e in simmetria senza rapidità di stile e freddamente sì che
quantunque le immagini metafore ec. stieno in regola e però non ci sia
turgidezza, contuttociò non fanno altro che un gran fresco perchè il sublime
non si può formare in quel modo. In somma ha bisogno di una pagina per formare
un quadro o pezzo qualunque sublime, dove Pindaro e il Chiabrera di pochi
versi, questi come Dante è nel dipingere, quello com’è Ovidio. La dicitura non
ha altro pregio che una purgatezza competente, senz’ombra di proprietà nè d’efficacia; [28] nè anche ha quegli ardiri spessissimo infelici, ma pure alle volte
felici del Chiabrera, nè l’oscurità nè veruno di quei difetti, che comunque
tali pur paiono aver che fare colla lirica ed esser quasi naturali a un vero
lirico, sì come a Pindaro. Lo stesso dico dell’intrinseco dello stile, tanto
rispetto all’oscurità quanto all’ardire che nel Guidi non si trova si può dire
altro ardire se non qualche cosa presa dalla Scrittura, come di sopra ho detto,
e quanto a queste cose prese dalla Scrittura io parlo delle canzoni, non della
traduzione delle sei Omelie, dove prese un po’ più, tenendo dietro al testo di
esse, anzi le scelse apposta per tener dietro allo stile Davidico, (quantunque
l’abbia fatto senz’ombra di forza annacquatissimamente) che questa traduzione è
un vero mostro (per motivo dei pensieri del modo ec. mentre sono Omelie in
versi, con citazioni di Padri debolissime stiracchiate schifose) e non merita
che se ne dica altro: e pure son l’ultima e più studiata cosa ch’egli facesse.
Del resto il verso è sonante, e dico sonante perchè non posso dire armonioso se
per armonia vogliamo intendere la finezza dell’arte di verseggiare trovata dagl’italiani
dopo, il ritmo analogo ai sentimenti, la varietà ec. ec.
Io solea
dire ch’era una follia il credere e scrivere che ci fosse o in Italia o altrove
qualche poeta che somigliasse ad Anacreonte. Ma leggendo il Zappi trovo in lui
veramente i semi di un Anacreonte, e al tutto Anacreontica l’invenzione e in
parte anche lo stile dei Sonetti 24.34.41, e dello scherzo: il Museo d’Amore.
Anche le altre sue poesie sono lodevoli non poco per novità de’ pensieri
(giacchè non c’è quasi componimento suo dove non si veda qualche lampo di bella
novità) con dignitoso garbo e composta vivacità e certa leggiadria propria di
lui (così anche il Rubbi) per la quale si può chiamare originale, benchè di
piccola originalità. I Sonetti Amorosi ed hanno le doti sopraddette, e qual più
qual meno s’accostano all’Anacreontico.
Il
Manfredi non ha altro che chiarezza e facilità e gentilezza ed eleganza, senz’ombra
ombra di forza in nessun luogo, sì che quando il soggetto la richiede resta
veramente compassionevole e misero e impotente come nelle Quartine per Luigi
XIV. Del resto la gentilezza sua, ch’io dico è diversa dalla grazia e
leggiadria e venustà, ch’è cosa più interiore intima nel componimento e
indefinibile. Nè ha il Manfredi punto che fare coll’Anacreontico e la gentilezza
sopraddetta l’ha in ogni sorta di soggetti, gravi dolci leggiadri sublimi ec.
Nei Canti del Paradiso c’è mirabile chiarezza e facilità di esprimere e di
spiegare e dare ad intendere in versi lucidissimamente e senza dare nel
prosaico o nel basso, cose intralciate e difficili. Nelle Canzoni massimamente
ha imitato il Petrarca e anche affettatamente e servilmente come dove dice:
Canzone O tra quante il sol mira altera e bella Pel giorno natalizio di
Ferdinando di Toscana: Rade volte addivien, ch’altrui sublimi Fortuna ad
alto onor senza contrasti, (Rade volte addivien ch’all’alte imprese Fortuna
ingiuriosa non contrasti: Petrarca Spirto gentil ec.) e altrove.
Dei
quattro lirici ch’io ho mentovati di sopra oltre il Manfredi e il Zappi che
sono di un’altra classe, mentre questi appartengono a quella de’ Pindarici e
Alcaici e Simonidei ed Oraziani, ossia Eroici e Morali principalmente, io do il
primo luogo al Chiabrera, il secondo al Testi de’ quali se avessero avuto più
studio e più fino gusto, e giudizio più squisito quegli avrebbe potuto essere
effettivamente il Pindaro, e questi effettivamente l’Orazio italiano. Tra il
Filicaia e il Guidi non so a chi dare la preferenza; mi basta che tutti e due
sieno gli ultimi e a gran distanza degli altri due, mentre, secondo me, quando
anche fossero stati in tempi migliori, non aveano elementi di lirici più che
mediocri anzi forse non si sarebbero levati a quella fama ch’ebbero e in parte
hanno.
[29] Tutto è o può esser contento di se
stesso, eccetto l’uomo, il che mostra che la sua esistenza non si limita a
questo mondo, come quella dell’altre cose.
Canzonette popolari che
si cantavano al mio tempo a Recanati.
Fàcciate
alla finestra, Luciola,
Decco che
passa lo ragazzo tua,
E porta un
canestrello pieno d’ova
Mantato
colle pampane dell’uva.
I contadì
fatica e mai non lenta
E ‘l
miglior pasto sua è la polenta.
È già
venuta l’ora di partire
In santa
pace vi voglio lasciare.
Nina,
una goccia d’acqua se ce l’hai:
Se
non me la vôi dà padrona sei.
Io benedico
chi t’ha fatto l’occhi
Che te l’ha
fatti tanto ‘nnamorati.
Una volta
mi voglio arrisicare
Nella
camera tua voglio venire.
Ottimamente
il Paciaudi come riferisce e loda l’Alfieri nella sua propria Vita, chiamava la
prosa la nutrice del verso, giacchè uno che per far versi si nutrisse
solamente di versi sarebbe come chi si cibasse di solo grasso per ingrassare,
quando il grasso degli animali è la cosa meno atta a formare il nostro, e le
cose più atte sono appunto le carni succose ma magre, e la sostanza cavata
dalle parti più secche, quale si può considerare la prosa rispetto al verso.
Una
giovane nubile educata parte in monastero parte in casa con massime da
monastero, esortava la sorella di un giovane parimente libero, a volergli bene,
e le ripeteva questo più volte, e con premura, cosa di ch’io informato credetti
che questo potesse essere un artifizio dell’amore che non potendo a cagione
della di lei educazione monastica operare direttamente, operava indirettamente
facendole consigliare altrui un amor lecito, verso quell’oggetto, ch’ella forse
si sentiva portata ad amare con amore ch’ella avrà stimato illecito.
Un
villano del territorio di Recanati avendo portato un suo bue, già venduto, al
macellaio compratore per essere ammazzato, e questo sul punto dell’operazione,
da principio dimorò sospeso e incerto di partire o di restare, di guardare o di
torcere il viso, e finalmente avendo vinto la curiosità, e veduto stramazzare
il bue, si mise a piangere dirottamente. L’ho udito da un testimonio di vista.
Chi mi
chiedesse qual sia secondo me il più eloquente pezzo italiano, direi le due
canzoni del Petrarca Spirto gentil ec. e Italia mia ec. se concedessi qualche
cosa al Tasso ch’era in verità eloquente, e principalmente parlando di se
stesso, ed eccetto il Petrarca, è il solo italiano veramente eloquente. La
sventura in gran parte lo fece tale, e l’occorrergli spessissimo di difendersi
ec. e in qualunque modo parlar di se, perch’io sosterrò sempre che gli uomini
grandi quando parlano di se diventano maggiori di se stessi, e i piccoli
diventano qualche cosa, essendo questo un campo dove le passioni e l’interesse
e la profonda cognizione ec. non lasciano campo all’affettazione e alla
sofisticheria cioè alla massima corrompitrice dell’eloquenza e della poesia,
non potendosi cercare i luoghi comuni quando si parla di cosa propria, dove
necessariamente detta la natura e il cuore, e si parla di vena, e di pienezza
di cuore. Onde quello che si dice della utilità derivante agli scrittori dal
trattare materie presenti, a miglior dritto si dee dire del parlare di se
stesso comunque paia a prima vista che il parlar di se non debba interessar
gran fatto gli uditori, [30] cosa falsissima: e si veda nel migliore e
più celebre pezzo del Bossuet, quello in fine all’Oraz. di Condé che effetto fa
l’introduzione di se stesso, al qual pezzo io paragono quello di Cicerone nella
Miloniana (ch’è forse la sua migliore Orazione come questo è forse il più gran
pezzo di essa) il quale si combina parimente ch’è nel fine, dove per intenerire
i giudici introduce menzione di se stesso, e mi par che faccia un effetto
incredibile, come e più di quello che fa il Bossuet, tanto può l’introdurre se
stesso nei discorsi eloquenti, al contrario di quello che si crede.
La
duttilità della lingua francese si riduce a potersi fare intendere, la facilità
di esprimersi nella lingua italiana ha di più il vantaggio di scolpir le cose
coll’efficacia dell’espressione, di maniera ch’il francese può dir quello che
vuole, e l’italiano può metterlo sotto gli occhi, quegli ha gran facilità di
farsi intendere, questi di far vedere. Però quella lingua che purchè faccia
intendere non cerca altro nè cura la debolezza dell’espressione, la miseria di
certi tours (per li quali la lodano di duttilità) che esprimono la cosa
ma freddissimamente e slavatissimamente e annacquatamente è buona pel
matematico e per le scienze; nulla per l’immaginazione la quale è la vera
provincia della lingua italiana: dove però è chiaro che l’efficacia non toglie
la precisione anzi l’accresce, mettendo quasi sotto i sensi quello che i
francesi mettono solo sotto l’intelletto, ond’ella non è men buona per le
scienze che per l’eloquenza e la poesia, come si vede nella precisa efficacia e
scolpitezza evidente del Redi del Galilei ec.
Nella
quistione se [si] debba dire be ce de ec. o bi ec. e però abbiccì
o abbeccè della quale v. il Manni Lez. di lingua toscana, io senza
cercare l’uso di qual città debba far legge ma quale sia più ragionevole
preferisco l’abbeccè ch’è anche nostro marchegiano, per ragioni cavate
dalla natura la quale pare che quel riposo vocale per la cui necessità soltanto
si dà il nome alle consonanti, lasciando le vocali sole come sono, (quantunque
gli antichi greci ebrei ec. nominassero anche le vocali) l’abbia ristretto all’e onde provatevi a pronunziar sola una consonante p.e. l’f o l’n: (metto queste
sulle quali non cade la quistione nè l’uso di pronunziare piuttosto in un modo
che in un altro) vedrete che la pronunzia non potendo star sospesa e finita
nella pura consonante, e dovendo cascare in vocale vi casca nell’e: così
vediamo che i fanciulli nel leggere e chiunque strascina la pronunzia delle
parole, a quelle lettere che non hanno vocale dopo aggiunge un mezzo e,
come in aredenetemenete ine pace ec. Però gli ebrei (e credo che così
sia in tutte le lingue orientali) ponendo sempre un riposo dopo ogni consonante
o espresso o sottinteso, quando manca la vocale, ci mettono o ci suppongono lo
sceva tanto in mezzo che in fine delle parole, il quale talora si pronunzia
talora no, e in genere si può molto propriamente rassomigliare all’e muta dei francesi, i quali non hanno altra vocale muta che l’e, nuova
prova di quel ch’io dico.
Io per
esprimere l’effetto indefinibile che fanno in noi le odi di Anacreonte non so
trovare similitudine ed esempio più adattato di un [31] alito passeggero
di venticello fresco nell’estate odorifero e ricreante, che tutto in un momento
vi ristora in certo modo e v’apre come il respiro e il cuore con una certa
allegria, ma prima che voi possiate appagarvi pienamente di quel piacere,
ovvero analizzarne la qualità, e distinguere perchè vi sentiate così
refrigerato già quello spiro è passato, conforme appunto avviene in Anacreonte,
che e quella sensazione indefinibile è quasi istantanea, e se volete
analizzarla vi sfugge, non la sentite più, tornate a leggere, vi restano in
mano le parole sole e secche, quell’arietta per così dire, è fuggita, e appena
vi potete ricordare in confuso la sensazione che v’hanno prodotta un momento fa
quelle stesse parole che avete sotto gli occhi. Questa sensazione mi è parso di
sentirla, leggendo (oltre Anacreonte) il solo Zappi.
Il gusto
presente per la filosofia non si dee stimare passeggero nè casuale, come fu
varie volte anticamente p.e. appresso i Greci al tempo di Platone dopo Socrate,
e appresso i Romani in altri tempi ancora, ma fra i nobili e gli scioli come
presentemente al tempo di Luciano, quando mantenevano il filosofo come
ingrediente di corte e di famiglia illustre, e si trattenevano benchè
scioccamente con lui ec. V. Luciano fra le altre opere nel trattato De mercede
conductis. In questi tali tempi era effetto di moda, e non avendo il suo
principio radicale nello stato dei popoli poteva passare e passava come ogni
altra moda, sicch’era cosa accidentale che sopravvenisse questo gusto piuttosto
che un altro. Ma presentemente il commercio scambievole dei popoli, la stampa
ec. e tutto quello che ha tanto avanzato l’incivilimento cagiona questo amore
dei lumi e per conseguenza della filosofia, e questo gusto filosofico che si
manifesta nelle opere più alla moda e quello spirito senza il quale si può dire
che nessun’opera moderna incontra: onde questo gusto avendo la sua ferma radice
nella condizione presente dei popoli si dee stimare durevole e non casuale nè
passeggero e molto differente da una moda.
La prosa
per esser veramente bella (conforme era quella degli antichi) e conservare
quella morbidezza e pastosità composta anche fra le altre cose di nobiltà e
dignità, che comparisce in tutte le prose antiche e in quasi nessuna moderna,
bisogna che abbia sempre qualche cosa del poetico, non già qualche cosa
particolare, ma una mezza tinta generale, onde ci sono certe espressioni
tecniche p.e. che essendo bassissime nella poesia sono basse nella prosa;
(giacchè qui non parlo di quelle che son basse e plebee assolutamente le quali
anche talvolta sconverranno meno alla buona prosa di quelle ch’io dico qui)
come altre che sono basse nella poesia, alla prosa non disconvengono affatto:
p.e. quei versi del Voltaire: Je chante le héros qui régna sur la France Et par
droit de conquête, et par droit de naissance. Quel tecnicismo pessimo in questi
versi, non disdice in prosa. Da questo ch’io ho detto si vede quanto debba
diventare come infatti diventa geometrica arida sparuta dura, asciutta ossuta,
e dirò così, somigliante a una persona magra che abbia le punte dell’ossa tutte
in fuori, quella prosa tutta sparsa d’espressioni metafore frasi locuzioni modi
tecnici che usa presentemente massime in Francia, e quanto lontana da quella
freschezza e carnosità morbida sana vermiglia vegeta florida, e da quella
pieghevolezza e da quella dignità che s’ammira in tutte quelle prose che sanno
d’antico.
[32] La tartaruga lunghissima nelle sue
operazioni ha lunghissima vita. Così tutto è proporzionato nella natura, e la
pigrizia della tartaruga di cui si potrebbe accusar la natura non è veramente
pigrizia assoluta cioè considerata nella tartaruga ma rispettiva. Da ciò si
possono cavare molte considerazioni.
Che il
popolo latino non chiamasse testam il capo, come il nostro lo chiama
burlescamente la Coccia, e da questo non sia venuta la voce italiana testa e la francese tête?
Quello
che dice il Metastasio negli Estratti della poet. d’Aristot. il Gravina nel
Trattato della tragedia dove parla del numero cap.26. e ho detto io nel
Discorso sul Breme intorno alla materia dell’imitazione la quale può esser ad
arbitrio, come imitare in marmo in bronzo in verso in prosa ec. è vero: e
quello che ho detto io specialmente mi par che sia vero senza eccezione: ma
quanto al Metastasio poich’egli lo dice per difender l’Opera, bisogna notare
che gli elementi della materia non debbon esser discordanti, che allora la
imitazione è barbara: come forse si può dir dell’Opera dove da una parte è l’uomo
vero e reale per imitar l’uomo, cioè la persona rappresentata, dall’altra è il
canto in bocca dell’uomo, per imitare non il canto ma il discorso della stessa
persona. Questa osservazione (considerazione) si può estendere a molte altre
materie d’imitazione mal composte. Quanto al canto però si osservi che anche
gli antichi cantavano le tragedie come dice il loro nome, se ben questo fu
forse ne’ primi tempi quando la tragedia era veramente in mano di gentaglia sua
sciocca inventrice e il costume o non durò, o se durò, fu perchè avea
cominciato così e non si ardì o non si volle mutare, e questa forse fu la
cagione ancora che fece fare la tragedia e la commedia in verso, di maniera che
da questa pratica venuta da vile origine non si dee stimare il giudizio de’
greci e degli antichi su questo particolare: i quali forse avrebbero fatto
ambedue in prosa se l’una o l’altra fosse stata invenzione del gusto, e non
parto stentato di diversissime circostanze e usanze vecchie ec.
È
osservabile che [in] Celso nel quale è singolarmente notata (e lodata) la
semplicità e facilità dello stile per le quali si sarà discostato meno degli
altri dal latino volgare, sono frequentissime e moltissime frasi costruzioni,
usi di parole, locuzioni ec. ed anche parole assolutamente o prette italiane o
che si accostano alle italiane io dico di quelle che comunemente non s’hanno
per derivate dal latino nè per comuni alle due lingue ma proprie della nostra,
e che trovandole non presso Celso ma presso qualche scrittore latino moderno,
le stimeressimo poco meno che barbarismi, anche presentemente, cioè non ostante
che in effetto si trovino appresso Celso eccetto se non ci ricordassimo
espressamente, o ci fosse citata l’autorità di lui. Per es. dice nel libro 1.
capo 3. dopo il mezzo: interdum valetudinis causa recte fieri,
experimentisbcredo; CUM EO TAMEN NE quis qui valere et senescere volet,
hoc quotidianum habeat. (Con questo però che ec. cioè, purchè
locuzione pretta italiana.) E nel lib.2.c.8. circa il fine: quos lienis male
habet, si tormina prehenderunt, deinde versa sunt vel in aquam inter
cutem, vel in intestinorum laevitatem, vix ulla medicina periculo subtrahit. Si
trova però frase simile cioè prehendo in significato di cogliere,
ma presso i Comici latini. E parimente l.2. c.11. nel fine: huc potius
confugiendum est, cum eo tamen ut sciamus, hic ut nullum periculum, ita
levius auxilium esse. E c.17. alquanto sopra il mezzo: recte medicina ista
tentatur, cum eo tamen ne praecordia dura sint, neve etc. e lib.3. c.5.
sul fine: scire
licet...
satius esse consistente jam incremento febris aliquid offerre, quam
increscente... cum eo tamen ut nullo tempore is qui deficit non sit
sustinendus. Così c.22. mezzo e c.24. fine e l.4. c.6. E c.6. dopo il mezzo: in
vicem ejus dari potest vel intrita ex aqua ec. (in vece di questa), e così
altrove usa questa stessa frase; nota che qui non vuol dire alternativamente,
ma [33] assolutamente in vece, cioè escluso l’altro cibo ec. L’altro
luogo dove l’usa è lib.4. c.6. nello stesso modo assoluto. E lib.4. c.2. fine:
post quae vix fieri potest ut idem incommodum maneat. (semplicemente
come noi diciamo incomodo per piccola malattia.) E c.22. quod fere post longos
morbos vis pestifera huc se inclinat, quae ut alias partes liberat, sic hanc
ipsam (nimirum coxas) quoque affectam prehendit. E c.28. del
lib.5. sect.17. nam et rubet (impetiginis genus primum) et durior est, et
exulcerata est, et rodit. (come diciamo noi volgarmente talvolta neutro e spesso anche impersonale,
per prurire). E così ivi poco dopo: squamulae ex summa cute discedunt, rosio major est. E poco dopo di un altro genere d’impetigine dice: in summa cute
finditur, et vehementius rodit. Dove s’ingannerebbe chi credesse che
Celso volesse per rodere intendere lo stesso che erodere, poichè
1. egli usa sempre questo secondo quando si tratta di significare corrosione,
2. negli esempi che addurrò dove si vede il passivo di rodere, l’accompagnamento
delle altre parole, mostra che non si tratta di corrosione ma di prurito; e
dice dunque ib. Sect. seguente di un altro male simigliante: in quo per minimas
pustulas cutis exasperatur et rubet leviterque roditur: e poco sotto di
un altro genere del sopraddetto male: in qua similiter quidem, sed magis cutis
exasperaturque exulceraturque ac vehementius et roditur et rubet et
interdum etiam pilos remittit, 3. nella sez. precedente la 17. dice della
scabbia o rogna per tutta definizione queste parole: Scabies vero est durior
cutis, rubicunda; ex qua pustulae oriuntur, quaedam humidiores, quaedam
sicciores. Exit ex quibusdam sanies, fitque ex his continuata exulceratio
PRURIENS, serpitque in quibusdam cito. Atque in aliis quidem ex toto desinit, in aliis vero
certo tempore anni revertitur. Quo asperior est, quoque PRURIT
magis, eo difficilius tollitur. Itaque eam quae talis est, agrÛan, id
est feram, Graeci appellant. Poi passa ai rimedi che sbriga in poche righe senza far altro motto della
natura del male. Ora nella sez. seguente dice del primo genere d’impetigine,
che similitudine scabiem repraesentat, nam et rubet etc. come sopra;
dove egli ha la mira a quello che ha detto di sopra della scabbia com’è
evidente: ma ch’ella sia rossa, dura, esulcerata l’ha detto come io ho notato
con lineette, che corroda non l’ha detto punto: ora come sarà simile alla
scabbia la impetigine nam rodit, perchè rode? Bensì ha detto che la
scabbia prurit, e questo segno sostanziale mancherebbe alla impetigine se il
rodit non si prendesse in questo senso, che d’altronde non si può prendere per
corrodere. Vedi se il Forcellini o l’Appendice ha nulla di rodere in
significato di prurire . E lib.6. c.2.
fine: Si parum per haec proficitur, vehementioribus uti licet, cum eo ut
sciamus, (senza il tamen) utique in recenti vitio id inutile esse. E ib.
c.18. sect.7. [34] Si quidquid laesum est, extra est, neque intus
reconditum, eodem medicamento tinctum linamentum superdandum est, et quidquid
ante adhibuimus cerato contegendum. In hoc autem casu neque
acribus cibis utendum neque asperis nec alvum comprimentibus. Così altrove
spesso, in primo casu, in eo casu ec. come noi diciamo: in questo caso, nel
primo caso ec. E lib.7. c.2. dopo il mezzo: Semper autem ubi scalpellus
admovetur, id agendum est ut et quam minimae et quam paucissimae plagae sint, cum
eo tamen ut necessitati succurramus et in modo et in numero. E c.7. sect.7.
At quibus id in angulo est, potest adhiberi curatio, cum eo ne (senza il
tamen) ignotum sit esse difficilem. E c.16. quia et rumpi facilius motu
ventris potest, et non aeque magnis inflammationibus pars ea (venter), exposita
est. E c.22. adurendus
est tenuibus et acutis ferramentis quae ipsis venis infigantur, cum eo ne
amplius quam has urant (senza il tamen) E c.27. circa il mezzo: Sub
quibus perveniri ad sanitatem potest, cum eo tamen quod non (nota il quod
non in vece del ne ch’è anche più conforme alla frase italiana)
ignoremus, orto cancro saepe affici stomachum (l’ediz. di cui mi servo non ha
la virgola dopo orto cancro quantunque abbondantissima nell’interpunzione). E
lib.8. c.10. sect.7. ab init. Quibus periculis etiam magis id expositum quod juxta ipsos articulos ictum est. In somma tutta la struttura della prosa
di Celso è tale che accostandosi infinitamente per la maniera il giro la
costruzione la frase i modi e le parole alla italiana, dà a conoscere più che
forse qualunque altra prosa latina dei buoni secoli, anche a chi non lo sapesse
per altra parte, che la lingua italiana deriva dalla latina. Onde non dubito
che questa prosa non si accostasse ancora e non fosse presa in grandissima
parte quanto al modo, e anche in qualche parte rispetto alle parole, dal
volgare di Roma, o latino.
Il
Libellus de Arte dicendi pubblicato sotto il nome di Celso da Sisto a Popma in
Colonia nel 1569 e ristampato come rarissimo dal Fabricio in fondo alla Bibl.
Lat. Lo giudico un compendio o uno spoglio o un pezzo compendiato dell’opera di
Celso sull’Eloquenza ch’era parte della grand’opera sulle arti di cui c’è
rimasta la medicina. E raccolgo che sia di Celso dalla facile eleganza o
piuttosto facilità elegante tutta propria di Celso che si trova in vari
luoghetti sparsi per tutto il brevissimo libricciuolo misti a un rimanente
confuso, o inelegante, e anche barbaro e inintelligibile, il che dimostra l’altra
parte del mio giudizio, cioè che questa non sia l’opera intera di Celso, come
pare ch’abbia creduto il Fabricio l.4. c.8. fine p.506. fine, oltrechè come
vedo nel Tiraboschi qui non si trova [35] tutto quello che Quintiliano
cita dell’opera di Celso. Anche Curio Fortunaziano Retore nei Rettorici latini
del Pithou, p.69. cita Celso. Trovo poi anche parecchi modi e parole che mi
persuadono che il libretto sia cavato veramente da Celso, perchè sono frequenti
e familiari sue nei libri della Medicina, p.e. §.3. Oratoris artibus nemo
instrui potest, nisi cui ingenium et frequens studium est. Primum animi sit
(assoluto) oportet quaedam naturalis ad videndas ediscendasque res potentia.
Tum vox, (nota l’omissione del sit oportet, e la dipendenza di
questo periodo dal precedente familiarissimo a Celso) latus, decor, valetudo,
frugalitas, laboris patientia. E tutto il §. È di maniera affatto Celsiana. E
§.4. Super hoc, per oltre a ciò, usitato da
Celso, e la particella ubi per quando, allorchè, se,
familiarissimo a Celso, e usata spesso qui pure, cioè §.9. e 10. tre volte, 11.
Due volte, e 17. due volte. E §.10. Neque alienum est, ubi longior
fuerit expositio vel narratio, extrema ita finire, ut admoneas
quaecumque dixeris. E ivi poco dopo: Nec semper debet orator veterum se
praeceptis addicere, sed scire debet incidere novam materiam quae
novi aliquid postulet. E quanto all’incidere, si trova anche in simile
maniera §.11. Evenit ut ante sit respondendum quam sit ponenda narratio, ut pro
Milone: Incidit caussae genus quod summam habet quaestionis. E ib. più sopra:
Alterum genus est in quo utique (modo familiarissimo a Celso) aeque
supervacua narratio est e così §.12. haec enim verisimilia sunt, non utique vera. E §.13. Cum autem diu dicere volet, omne argumentum ornatius exequetur.
E ivi: Si unum argumentum validum est et unum frivolum, a valido
incipies, frivolum persequeris, rursum validum repetes. E ivi: Cum aliquibus
partibus causa laborat, utilius ordinem quaestionum confundimus, quas ex
toto tractare non expedit. Modo totalmente celsiano, al quale è
familiarissimo quando appo gli altri è se non altro, raro, a mio parere, e che
quasi solo basterebbe appresso me per farmi credere che il libretto sia cavato
veramente da Celso. Modo del resto levato di peso dal greco ¢j
‘pantow, alla
qual lingua s’accosta anche moltissimo e la maniera di Celso in generale, e
molti modi frasi locuzioni ec. in particolare (e la semplicità e la forma della
costruzione tanto del tutto, quanto dei periodi, del collegamento loro ec.),
come a lingua madre, nel modo che alla italiana s’accosta come a lingua figlia.
Si trova anche nel §.3. l’avverbio in totum per totalmente,
che se ben mi ricorda, [36] si trova anche frequentemente appresso
Celso.
Sento
dal mio letto suonare (battere) l’orologio della torre. Rimembranze di quelle
notti estive nelle quali essendo fanciullo e lasciato in letto in camera
oscura, chiuse le sole persiane, tra la paura e il coraggio sentiva battere un
tale orologio. Oppure situazione trasportata alla profondità della notte, o al
mattino: ancora silenzioso, e all’età consistente.
Nel
Monti è pregiabilissima e si può dire originale e sua propria la volubilità
armonia mollezza cedevolezza eleganza dignità graziosa, o dignitosa grazia del
verso, e tutte queste proprietà parimente nelle immagini, alle quali aggiungete
scelta felice, evidenza, scolpitezza ec. E dico tutte giacchè anche le sue
immagini hanno un certo che di volubile molle pieghevole facile ec. Ma tutto
quello che spetta all’anima al fuoco all’affetto all’impeto vero e profondo sia
sublime, sia massimamente tenero gli manca affatto. Egli è un poeta veramente
dell’orecchio e dell’immaginazione, del cuore in nessun modo, e ogni volta che
o per iscelta come nel Bardo, o per necessità ed incidenza come nella Basvilliana
è portato ad esprimer cose affettuose, è così manifesta la freddezza del suo
cuore che non vale punto a celarla l’elaboratezza del suo stile e della sua
composizione anche nei luoghi ch’io dico, nei quali pure egli va bene spesso
anzi per l’ordinario con ributtante freddezza e aridità in traccia di luoghi di
classici greci e latini, di espressioni di concetti di movimenti classici per
esprimerli elegantemente lasciando con ciò freddissimo l’uditore, che non trova
ancor quivi se non quella coltura (la quale in questi casi più quasi nuoce di
quello giovi) che trova per tutto il resto della composizione sparso anch’esso
di traduzioni di pezzi de’ Classici. Giacchè questo è il costume del Monti e
nella Basvilliana e per tutto di tradurre (ottimamente bensì, ma quasi
formalmente tradurre) frequenti luoghi, modi frasi pensieri immagini
similitudini metafore [37] ec. ec. d’autori classici: e la Musogonia
segnatamente si può dire che sia un vero centone di pezzi (nota bene) di Omero
Esiodo Callimaco Virgilio Orazio Ovidio, i cui nomi (con forse quello di
qualcun altro antico o italiano classico) se ve li scrivessero in margine a
modo delle Catenae patrum, non credo che ci sarebbe non dico pag. ma appena
stanza che non fosse compresa sotto quei nomi, di maniera ch’io non mi fiderei
di trovare in tutto il canto una diecina di ottave intieramente originali.
Lascio poi che il poemetto non ha nessun fine soddisfacente, non è se non
stiracchiatamente adattato alle circostanze d’allora, e un centone di pezzi
antichi per cantare quello che cantarono quegli stessi antichi è una cosa ben
miserabile.
La
natura, come ho detto è grande, la ragione è piccola e nemica di quelle grandi
azioni che la natura ispira. Questa nimicizia di queste due gran madri delle
cose non è stata accordata se non dalla Religione la qual sola proponendo l’amore
delle cose invisibili di Dio ec. e la speranza di premio nella vita futura ha
conciliato con mirabile armonia la grandezza generosità sublimità, apparente
pazzia delle azioni (come son quelle dei martiri, il distacco dai beni terreni
da’ parenti dalla patria ec. il disprezzo della morte, il sacrifizio de’
piaceri e di tutto all’amor di Dio al dovere ec.) colla ragione: armonia che
fuor della religione non si può trovare se non a parole, perchè tolta la
speranza della vita futura, l’immortalità dell’anima, l’esistenza della virtù
della sapienza della verità della beltà personificata in Dio, la cura di questo
essere intorno ai portamenti nostri ec. l’amor di lui ec. non ci sarà mai si
può dire, azione eroica e generosa e sublime, e concetti e sentimenti alti, che
non sieno vere e prette illusioni e che non debbano scadere di prezzo quanto
più cresce l’impero della ragione, come già vediamo e che sono illusioni quelle
grandezze anche presenti nelle quali la religione non ha parte, e che collo
indebolirsi la forza della fede negli animi, scemano presentemente quelle
azioni sublimi delle quali erano molto più fecondi i secoli passati ignoranti
che il nostro illuminato. Similmente si può dire della dolcezza e amabilità di
tante idee ed opinioni che senza la religione sono chimere, e colla religione
sono verità, e alle quali la ragione per se ripugnerebbe, la quale com’è nemica
della grandezza così è nemica della profonda e vera bellezza, e con lei, come
tutto è piccolo così tutto è brutto e arido in questo mondo.
Uno dei
casi nei quali il seguir la ragione è barbaro, e il seguir la natura è
irragionevole, ma religioso però, è di un padre p.e. che veda il figlio così
affetto da dover essere assolutamente infelice vivendo, da dover penare sempre
e senza riparo, tra dolori acuti, tra la mancanza di tutti i piaceri, tra una
noia perenne, tra una vergogna cocente per le imperfezioni fisiche ec.
Desiderar la morte a questo figlio, poniamo caso anche malato, anche disperato
da’ medici, anche moribondo, o vero non solo desiderarla ma non dolersene
consolarsene non piangerne amaramente, è ragionevole e barbaro, e come barbaro
e snaturato, così anche contrario ai principi della religione.
[38] Non so se si possa far cosa più
dispiacevole altrui quanto ad uno che v’abbia fatto un dono splendido, offrirne
goffamente un altro molto inferiore, col che si viene a mostrare di stimar poco
quel dono comparandolo con quello che si presenta quasi fosse atto a
compensarlo, e di credere che il dono ricevuto si sia già compensato
sgravandosi dell’obbligo della gratitudine, e il donatore che nel donarvi si
compiaceva in se stesso aspettandosi da voi e la cognizione del benefizio, e la
gratitudine (quantunque dovesse essere anche necessariamente e prevedutamente
infruttuosa) si vede nell’atto della sua maggior compiacenza privo del premio
del suo sacrifizio, e di più senza potersene lagnare se non altro fra se così
altamente e generosamente come possono quelli che trovano ingratitudine. La
qual frustrazione di speranza dopo un sacrifizio e forse anche uno sforzo fatto
per conseguirla effettivamente, produce nell’uomo un senso disgustosissimo.
Uomini
singolari che si siano distinti o data opera, o per sola natura, o, com’è
infatti, se non altro, più comune, per l’una e per l’altra maniera, dall’universale
dei loro contemporanei nelle operazioni, vita, istituto ec. metodo ec. ci
furono anticamente e ci sono stati ultimamente, e ci saranno stati in tutte le
età, ma è una cosa curiosa l’osservare la differenza dei tempi nella misura
della differenza tra i costumi di questi uomini singolari e quelli de’
contemporanei. Giacchè Rousseau p.e. e l’Alfieri sono passati in questi ultimi
tempi per uomini singolari quanto passarono un tempo in Grecia, Democrito
Diogene ec. e gli altri tanti filosofi che durarono anche in Roma sino a M.
Aurelio e dopo. E questa uguaglianza d’effetto è assoluta. Ma se misureremo la
cagion sua, cioè la differenza tra i costumi dell’Alfieri e i presenti, messa
in paragone con quella tra i costumi di Diogene e de’ greci suoi contemporanei
troveremo una disparità infinita tra la misura dell’una differenza e dell’altra
essendo senza paragone maggiore quella di Diogene, dal che avviene che queste
due differenze assolutamente parlando siano diversissime di peso quantunque
rispettivamente considerate abbiano un’intensità e misura e valore uguale. Il
che mostra che i costumi presenti non solo variano dagli antichi nella qualità
in maniera che i costumi formali di Diogene passerebbero oggi per pazzie, ma
ancora in questo che a segnalarsi fra essi ci bisogna una molto minore quantità
di stravaganza (prendendo questo termine in buona parte e per singolarità,
stranezza ec.) che non bisognava una volta, sicchè se qualcuno differisse ne’ suoi
costumi dai presenti tanto, assolutamente parlando, quanto Diogene differiva
dai greci, passerebbe anche così, non per singolare, come passava Diogene, ma
per matto, quantunque relativamente alla qualità, la differenza fosse
consentanea e proporzionale ai costumi presenti. Bisognava più dose anticamente
per fare un effetto che ora si ottiene con molto meno, e la successiva e
proporzionale diminuzione o accrescimento di questa dose si può calcolare anche
nei tempi che sono di mezzo fra questi due estremi gli antichi e i moderni, che
sono veramente estremi, non solo cronologicamente ma anche filosoficamente
parlando, e questa dose calcolata può servire di termometro ai costumi [39] anche
trasportandolo dai tempi alle nazioni, giacchè non è dubbio che la dose non sia
presentemente molto minore in Francia che in qualunque altro paese ec. e così
anticamente e in ciascuna età differente presso questo o quel popolo.
Dice
Bacone da Verulamio che tutte le facoltà ridotte ad arte steriliscono.
Della quale verissima sentenza farò un breve commento applicandolo in
particolare alla poesia. Steriliscono le facoltà ridotte ad arte, vale a dire
gli uomini non trovano altro che le amplifichi, come trovavano quando ell’erano
ancora informi e senza nome e senza leggi proprie ec. e di ciò mi sovvengono (verbo usato in questo significato dal Tasso) 4. ragioni. La 1. che quasi
nessuno pensa più ad accrescere una facoltà già stabilita ordinata composta e
che si ha per perfetta, perchè ognuno si contenta e si acquieta stimando la cosa
già compita il che non accadeva prima della sua riduzione ad arte, ma ciascuno
che capitava a coltivare questa facoltà, si lambiccava il cervello per
ampliarla perchè non avea nome d’esser arte; quando l’ha avuto quando anche in
fatti non sia più ricca di prima, par ch’ell’abbia già il tutto. La 2. (e
questa è relativa particolarmente alla poesia) perchè moltissimi anzi quasi
tutto il volgo di quelli che si applicano alla poesia (dite lo stesso
proporzionatamente delle altre facoltà) non ardiscono di violare nessuna delle
regole stabilite di mettere il piede un dito fuori della traccia segnata dai
predecessori, credendo pedantescamente che il poetare non si possa eseguire
senza stare a quelle leggi, insomma la seconda ragione è la pedanteria. La 3.
più comune alle persone di senno e giudiziose e capaci, e anche esimie, è il
costume e l’abitudine dal quale non si sanno staccare parte relativamente a se,
parte agli altri. A se, perchè coll’abito preso di leggere di sentire di
scrivere quella tal sorta di poemi di tragedie ec. non sanno fare altrimenti
quantunque non siano ritenuti da nessuna superstizione. Agli altri, perchè non
ardiscono di abbandonare la consuetudine corrente, e quantunque non sieno
schiavi dei pregiudizi tuttavia dovendo comporre qualche poesia non si
risolvono a parere stravaganti ideando cose non più sentite, dovendo pubblicare
un’azione drammatica ed esporla agli occhi del popolo, se la facessero di
capriccio e senz’adattarsi alla forma usata crederebbero meritarsi le risa o il
biasimo universale, se componessero un poema epico di forma differente da
quella che si costuma da tutto il mondo stimano e in certo modo con ragione che
dovrebbero essere ripresi d’aver barattati i nomi, non ricevendosi per poema
epico se non quello che è in questa forma consueta. E così è in fatti che se
uno intitola la sua opera tragedia, il pubblico si aspetta quello che si suole
intendere per
tragedia,
e trovando cosa tutta differente se ne ride. Nè senza ragione perchè il danno
dell’età nostra è che la poesia si sia già ridotta ad arte, in maniera che per
essere veramente originale bisogna rompere violare disprezzare lasciare da
parte intieramente i costumi e le abitudini e le nozioni di nomi di generi ec.
ricevute da tutti, cosa difficile a fare, e dalla quale si astiene
ragionevolmente anche il savio, perchè le consuetudini vanno rispettate
massimamente nelle cose fatte pel popolo come sono le poesie, nè va ingannato
il pubblico con nomi falsi. [40] E dare una nuova poesia senza nome
affatto e che non possa averne dai generi conosciuti è ragionevole bensì, ma di
un ardire difficile a trovarsi, e che anche ha infiniti ostacoli reali, e non
solamente immaginari nè pedanteschi. La 4. e la più forte, e la più
considerabile, che quando anche un bravo poeta voglia effettivamente astrarre
da ogni idea ricevuta da ogni forma da ogni consuetudine, e si metta a
immaginare una poesia tutta sua propria, senza nessun rispetto,
difficilissimamente riesce ad essere veramente originale, o almeno ad esserlo
come gli antichi, perchè a ogni momento anche senz’avvedersene, senza volerlo,
sdegnandosene ancora, ricadrebbe in quelle forme, in quegli usi, in quelle
parti, in quei mezzi, in quegli artifizi, in quelle immagini, in quei generi
ec. ec. come un riozzolo d’acqua che corra per un luogo dov’è passata altr’acqua:
avete bel distornarlo, sempre tenderà e ricadrà nella strada ch’è restata
bagnata dall’acqua precedente. Giacchè la natura somministra ben da se idee
sempre differenti e sempre nuove, e se un poeta non fosse stato conosciuto dall’altro
appena si sarebbero trovati due poeti che avessero fatti poemi somiglianti
perchè questo non sarebbe stato se non opera del caso, il quale difficilmente
produce simili combinazioni che ognuno vede quanto sian rare in ogni genere.
Perciò quando gli esempi erano o scarsi o nulli, Eschilo per es. inventando ora
una ora un’altra tragedia senza forme senza usi stabiliti, e seguendo la sua
natura, variava naturalmente a ogni composizione. Così Omero scrivendo i suoi
poemi, vagava liberamente per li campi immaginabili, e sceglieva quello che gli
pareva giacchè tutto gli era presente effettivamente, non avendoci esempi
anteriori che glieli circoscrivessero e gliene chiudessero la vista. In questo
modo i poeti antichi difficilmente s’imbattevano a non essere originali,
o piuttosto erano sempre originali, e s’erano simili era caso. Ma ora con tanti
usi con tanti esempi, con tante nozioni, definizioni, regole, forme, con tante
letture ec. per quanto un poeta si voglia allontanare dalla strada segnata a
ogni poco ci ritorna, mentre la natura non opera più da se, sempre naturalmente
e necessariamente influiscono sulla mente del poeta le idee acquistate che
circoscrivono l’efficacia della natura e scemano la facoltà inventiva, la quale
se ciò non fosse, malgrado i tanti poeti che ci sono stati, saprebbe ben da se
ritrovar naturalmente e senza sforzo (parlo della facoltà inventiva di un vero
poeta) cose sempre nuove, e non tocche da altri, almeno non in quella maniera
ec.
Una
delle grandi prove dell’immortalità dell’anima è la infelicità dell’uomo
paragonato alle bestie che sono felici o quasi felici, quando la previdenza de’
mali (che nelle bestie non è) le passioni, la scontentezza del presente, l’impossibilità
di appagare i propri desideri e tutte le altre sorgenti d’infelicità ci fanno
miseri inevitabilmente ed essenzialmente per natura nostra che lo porta, nè si
può mutare. Cosa la quale dimostra che la nostra esistenza non è finita dentro
questo spazio temporale come quella dei bruti, perchè ripugna alle leggi che si
osservano seguite costantemente in tutte le opere della natura, che vi sia un
animale, e questo il più perfetto di tutti, anzi il padrone di tutti gli altri
e di questo intiero globo, il quale racchiuda in se una sostanziale infelicità,
e una specie di contraddizione colla sua esistenza al compimento della quale
non è dubbio che si richieda la felicità proporzionata all’essere di quella
tale sostanza (che per l’uomo è impossibile di conseguire) e una contraddizione
formale col desiderio di esistere ingenito in lui come in tutti gli animali,
anzi proporzionatamente in tutte le cose; giacchè un uomo disperato della vita
futura ragionevolissimamente detesta la presente, se n’annoia, ne patisce (cosa
snaturata) e s’uccide come vediamo che fa (impossibile ne’ bruti). L’uccidersi
dell’uomo è una gran prova della sua immortalità. Verri Notte Romana 5.
colloquio 6.
[41]
La prima donna
(del teatro, attempata) non vuol recedere dagli antichi suoi diritti.
Quello
che ho detto qui sopra della difficoltà d’astenersi dall’imitare è confermato e
dall’esempio del Metastasio che se è vero quello che dice il Calsabigi nella
lettera all’Alfieri non volle mai leggere tragedie francesi, e da quello che
scrive l’Alfieri di se nella sua Vita, e tra l’altro del Caluso che gli negò
una tragedia del Voltaire ch’egli volea leggere mentre stava per comporne un’altra
sullo stesso argomento.
C’è una
differenza grandissima tra il ridicolo degli antichi comici greci e latini di
Luciano ec. e quello de’ moderni massimamente francesi. La differenza si
conosce benissimo e dà negli occhi immediatamente. Ma quanto all’analizzarla e
diffinire in che consista, a me pare che sia questo, che quello degli antichi
consistea principalmente nelle cose, e il moderno nelle parole (e quando dico
moderno intendo principalmente le più moderne commedie satire e altri scritti
ridicoli giacchè il Goldoni p.e. ne aveva di quel ridicolo antico e attico e
così le più antiche nostre commedie e il Berni ec. a differenza credo dei
francesi anche antichi come il Boileau ec.). Quello degli antichi era veramente
sostanzioso, esprimeva sempre e mettea sotto gli occhi per dir così un corpo di
ridicolo, e i moderni mettono un’ombra uno spirito un vento un soffio un fumo.
Quello empieva di riso, questo appena lo fa gustare e sorridere, quello era
solido, questo fugace, quello durevole materia di riso inestinguibile, questo
al contrario. Quello consisteva in immagini, similitudini paragoni, racconti
insomma cose ridicole, questo in parole, generalmente e sommariamente parlando,
e nasce da quella tal composizione di voci da quell’equivoco, da quella tale
allusione di parole, da quel giucolino di parole, da quella tal parola appunto,
di maniera che togliete quella allusione, scomponete e ordinate diversamente
quelle parole, levate quell’equivoco, sostituite una parola in cambio d’un’altra,
svanisce il ridicolo. Ma quel de’ greci e latini è solido, stabile, sodo,
consiste in cose meno sfuggevoli, vane, aeriformi, come quando Luciano nel Zeçw
elegkñmenow paragona
gli Dei sospesi al fuso della Parca ai pesciolini sospesi alla canna del
pescatore. Ed erano i greci e latini inventori acerrimi e solertissimi di
queste immagini, di queste fonti di ridicolo e ne trovavano delle così
recondite, e nel tempo stesso così feconde di riso ch’è incredibile come in
quel frammento di Filemone Comico appo il Vettori Var. Lect. l.18. c.17. E la
novità era cosa ordinarissima nel ridicolo degli antichi comici secondo la
forza comica di ciascheduno. E quando anche non ci fossero immagini similitudini
ec. sempre quel motteggiare era più consistente più corputo, e con più cose che
non il moderno. Ma forse e senza forse presentemente, e massime ai francesi par
grossolano quel che una volta si chiamava sale attico, e piacque ai greci,
popolo il più civile dell’antichità, e a’ latini. E può essere che anche Orazio
avesse una simile opinione quando disse male de’ sali di Plauto (esemplare di
quel ridicolo ch’io dico tra’ latini) e [42] infatti le Satire e l’Epistole
d’Orazio non sono di così solido ridicolo come l’antico comico greco e latino,
ma nè anche di gran lunga, così sottile come il moderno. Ora a forza di motti s’è
renduto spirituale anche il ridicolo, assottigliato tanto che omai non è più nè
pur liquore ma un etere un vapore, e questo solo si stima ridicolo degno delle
persone di buon gusto e di spirito e di vero buon tuono, e degno del bel mondo
e della civile conversazione. Il ridicolo nelle antiche commedie nasceva anche
molto dalle operazioni stesse ch’erano introdotti a fare i personaggi sulla
scena, e quivi ancora era non piccola sorgente di sale, nella pura azione, come
nelle Cerimonie del Maffei commedia piena di vero e antico ridicolo, quel
salire di Orazio per la finestra a fine d’evitare i complimenti alle porte. Un’altra
gran differenza tra il ridicolo antico e il moderno è che quello era preso da
cose popolari o domestiche o almeno non della più fina conversazione, la quale
poi non esisteva allora per lo meno così raffinata; ma il moderno massime il
francese versa principalmente intorno al più squisito mondo, alle cose dei
nobili più raffinati alle vicende domestiche delle famiglie più mondane ec. ec.
(come anche proporzionatamente era il ridicolo d’Orazio) sicchè quello era un
ridicolo che avea corpo, e come il filo d’un’arma che non sia troppo aguzzo,
dura lungo tempo, dove quello come ha una punta sottilissima, (più o meno,
secondo i tempi e le nazioni) così anche in un batter d’occhio si logora e si
consuma, e dal volgo poi non si sente, come il taglio del rasoio a prima
giunta.
Un’altra
prova dell’esser la nostra lingua italiana derivata dal volgare di Roma del
buon tempo si trae dalle parole antichissime Latine poi andate in disuso presso
gli scrittori, che ora si trovano nell’italiano, le quali è manifesto che con
una successione continuata sono passate da quegli antichissimi tempi sino a
noi, perchè nessuno certo l’è andato a pescare negli scrittori antichissimi
latini perduti poi ancora prima del nascere della nostra lingua, come Lucilio
Ennio Nevio ec. Di maniera che tra questi antichi che le usavano e noi che le
usiamo non bisogna lasciare nessun intervallo voto, perchè non sarebbero più
rinate, se non vogliamo dire che sia un caso, il che non si lascerà credere
appena agli Epicurei. Dunque non essendoci altra catena tra quegli scrittori e
noi che il volgare Latino, giacchè gli scrittori le aveano dismesse, resta che
questo si riconosca per conservatore e propagatore all’italiano di quelle voci.
Come pausa usata dagli antichi scrittori latini, poi disusata, poi
tornata in uso a’ tempi bassi e quindi nell’italiano, (v. il Du Cange) certo
non saltò da quei secoli antichi ai bassi così per miracolo, (giacchè certo
quei miserabili scrittori Latino barbari non la trassero dagli antichissimi
autori forse già perduti e certo a loro o ignoti, o tutt’altro che letti e
studiati) ma discese per una via continuata la quale non può esser altro che il
popolare latino. E questo credo che si possa parimente dire di moltissime altre
voci.
[43]
Diceva un marito
geloso alla moglie: Non t’accorgi, Diavolo che sei, che tu sei bella
come un Angelo?
Quanto
più del tempo si tiene a conto, tanto più si dispera d’averne che basti, quanto
più se ne gitta, tanto par che n’avanzi.
Non
vorrei parer di detrarre al valore delle lodi colle quali V.S. s’è compiaciuta
d’ornarmi pubblicamente, se dirò che più dell’onore che me ne viene, mi
rallegra la benevolenza di V.S. che mi dimostrano, e questa tanto maggiore
quanto essendo più scarso il merito mio, conviene che abbondi quello che ha
supplito al suo difetto.
Proprietà,
efficacia, ricchezza, varietà, disinvoltura, eleganza ancora e morbidezza e
facilità, e soavità e mollezza e fluidità ec. sono cose diverse e possono stare
senza la x‹riw 'Attik¯, lepos atticum, quella grazia che non si potrà mai trarre se non da un
dialetto popolare (capace di somministrarla) che gli antichi greci traevano
dall’Attico i latini massimamente antichi come Plauto Terenzio ec. dal puro e
volgare e nativo Romano, e noi possiamo e dobbiamo derivare dal Toscano usato
giudiziosamente.
Non si
trova in verun Dizionario italiano ch’io abbia potuto consultare ma è comune
fra noi la parola blitri o blittri o blitteri che
significa, un niente, cosa da nulla ec. Questa casa è un blitri;
questa città è un blitri a misurarla con Roma ec. ec. Ora questa parola
è totalmente e interamente greca: blÛtri, che anche si diceva blÛturi
e bl®turi e blÛthri (come
anche noi) e forse anche brÛturi, e non significava nulla. V. Laerz. l.7. segm.57. e quivi le note del
Casaub. e del Menag. e il Du Fresne Glossar. Graec. in blÛthri, e nell’appendice 1. in blÛthri parimente. Tutti gli
altri libri immaginabili che poteano fare al caso sono stati da me consultati
scrupolosamente, senza trovarci ombra di questa voce, e nominatamente i
Dizionari Greci tutti quanti n’ho, dove manca affatto, in tutte le sue maniere.
Il
cantare che facciamo quando abbiamo paura non è per farci compagnia da noi
stessi come comunemente si dice, nè per distrarci puramente, ma (come trovo
incidentemente e finissimamente notato anche nella seconda lettera del
Magalotti contro gli Atei) per mostrare e dare ad intendere a noi stessi di non
temere. La quale osservazione potrebbe forse applicarsi a molte cose, e dare
origine a parecchi pensieri. E già è manifesto che all’aspetto del male noi
cerchiamo d’ingannarci e di credere che non sia tale, o minore che non è, e
però cerchiamo chi se ne mostri o ne sia persuaso, e per ultimo grado, per
persuaderlo a noi stessi, fingiamo d’esserne già persuasi, operando e
discorrendo tra noi come tali. E questo è quello che accade nel caso detto di
sopra. E già è costume di moltissimi il detrarre quanto più possono colle
parole e colla fantasia a’ mali che loro sovrastanno, e con ciò si consolano e
fortificano, mendicando il coraggio non dal disprezzo del male, ma dalla sua
immaginata falsità o piccolezza, onde son molti che non si sgomentano se non di
rarissimo perchè quando vien loro annunziato o prevedono qualche male, prima
non lo credono affatto, (cioè si nascondono o impiccoliscono tutti i motivi di
credere) e così se il male non ha luogo effettivamente essi non han temuto, e
gli altri sì, e con ragione; poi lo scemano immaginando quanto possono, e così
non temono se non in quei rari casi nei quali sopraggiunge un male così
evidente e reale e che li tocchi in modo che non possano ingannarsi, giacchè
anche sopraggiunto che sia, molte volte non lo credono affatto male, cioè non
lo voglion credere. E questi che [44] forse spesso passano per
coraggiosi, sono i più vigliacchi che mai, giacchè non sanno sostenere non solo
la realtà ma neppur l’idea dell’avversità, e quando hanno sentore di qualche
disgrazia che loro sovrasti o sia accaduta, subito corrono col pensiero, ad
arroccarsi e trincerarsi e chiudersi e incatenacciarsi poltronescamente in dire
fra se che non sarà nulla. Onde si vede alla prova delle evidenti disgrazie,
come sieno codardi e si disperino, e dieno in frenesie e smanie da femminucce
con urli pianti preghiere, tutte cose vedute e notate effettivamente da me in
uno di cui ho e naturalmente doveva avere una gran pratica, del quale per l’altra
parte è un perfettissimo e appropriatissimo ritratto quello che ho detto di
sopra. Del resto è cosa pur troppo evidente che l’uomo inclina a dissimularsi
il male, e a nasconderlo a se stesso come può meglio, onde è nota l’eçfhmÛa degli antichi greci che nominavano le cose dispiacevoli tŒ deinŒ con nomi atti a nascondere o dissimulare questo
dispiacevole, (del che v. Elladio appo il Meursio) la qual cosa certo non
faceano solamente per cagione del mal augurio. E anche in italiano si dice, se
Dio facesse altro di me, per dire, s’io morissi, (v. la Crusca in Altro)
e in latino in questo istesso caso, si quid humanum paterer, mihi accideret
etc. e così in cento altri casi.
Un
argomento chiaro di quanto poco i greci studiassero il latino così
assolutamente, come in particolare rispetto a quello che i latini studiavano il
greco, è quello che dicono Plutarco nel principio del Demostene, e Longino dove
parla di Cicerone quando i latini scrittori senza nessunissima esitazione nata dall’esser
di diversa lingua, parlavano e giudicavano degli scrittori greci.
Anche in
nostra lingua le mutazioni della pronunzia latina ec. hanno guasto parecchie
parole, come da raucus espressivissima del suono che significa, roco che perde quasi tutta l’espressione.
L’infelicità
nostra è una prova della nostra immortalità, considerandola per questo verso
che i bruti e in certo modo tutti gli esseri della natura possono esser felici
e sono, noi soli non siamo nè possiamo. Ora è cosa evidente che in tutto il
nostro globo la cosa più nobile, e che è padrona del resto, anzi quello a cui
servizio pare a mille segni incontrastabili che sia fatto non dico il mondo ma
certo la terra è l’uomo. E quindi è contro le leggi costanti che possiamo
notare osservate dalla natura che l’essere principale non possa godere la
perfezione del suo essere ch’è la felicità, senza la quale anzi è grave l’istesso
essere cioè esistere, mentre i subalterni e senza paragone di minor pregio
possono tutto ciò, e lo conseguono, il che è chiaro a mille segni e per le
ragioni ancora indicate in un altro pensiero.
La
costanza dei 300. alle Termopile e in particolare di quei due che Leonida
voleva salvare, e non consentirono ma vollero evidentemente morire, come anche
la solita gioia delle madri o padri Spartani (ma è più notabile delle madri) in
sentire i loro figliuoli morti per la patria, è similissima anzi egualissima a
quella dei martiri e in particolare di quelli che potendo fuggire il martirio
non vollero assolutamente desiderandolo come gli spartani desideravan di cuore
di morire per la patria. E un esempio recente di un martire che potendo fuggir
la morte, non volle, si può vedere nel Bartoli, Missione al gran Mogol. E la
stessa applicazione [45] fo pure di quelle madri e padri cristiani che
godevano sentendo de’ loro figli martiri, e ancora esortandoli vedendoli
portandoli accompagnandoli offrendoli al martirio e nel supplizio confortandoli
a non cedere, come le spartane che esortavano ec. e quella che disse
presentando lo scudo al figlio, o con questo o su questo, e quelle che
abbominavano i figli macchiati di qualche viltà come parimente le cristiane ec.
Da questo confronto risulta una conformità non solita a considerarsi fra questi
due generi di eroismi, ed apparisce quello che ho detto altrove in questi
pensieri che la religione è la sola che abbia riunito l’eroismo e la grandezza
delle azioni e il valore e il coraggio e la forza d’animo ec. colla ragione ec.
e che abbia anzi risuscitato l’eroismo già quasi svanito allo scemare delle illusioni:
e quanto sia simile alle cose nostre quello che non si crede che abbia esempio
fuor delle circostanze della libertà, amor patrio ec. de’ greci de’ Romani, in
somma degli antichi e principalmente degli antichissimi, quando come ho detto
noi ne abbiamo anche esempi recenti ne’ nostri ultimi martiri, non solo ne’
primi e antichi.
Soleva
considerar come una pazzia quello che dicono i Cappuccini per iscusarsi del
trattar male i loro novizzi, il che fanno con gran soddisfazione, e con intimo
sentimento di piacere, cioè che anch’essi sono stati trattati così. Ora l’esperienza
mi ha mostrato che questo è un sentimento naturale, giacch’io giunto appena per
l’età a svilupparmi dai legami di una penosa e strettissima educazione e
tuttavia convivendo ancora nella casa paterna con un fratello minore di
parecchi anni, ma non tanti ch’egli non fosse nel pienissimo uso di tutte le
sue facoltà vizi ec. siccome non per altro (giacchè non era punto per
predilezione de’ genitori) se non perch’era mutato il genere della vita nostra
che convivevamo con lui, anch’egli partecipava non poco alla nostra larghezza,
ed avea molto più comodi e piaceruzzi che non avevamo noi in quella età, e
molto meno incomodi e noie e lacci e strettezze e gastighi, ed era perciò molto
più petulante ed ardito di noi in quell’età, perciò io ne risentiva
naturalmente una verissima invidia, cioè non di quei beni giacch’io gli avea
allora, e pel tempo passato non li potea più avere, ma mero e solo dispiacere
ch’ei gli avesse, e desiderio che fosse incomodato e tormentato come noi, ch’è
la pura e legittima invidia del pessimo genere, e io la sentiva naturalmente e
senza volerla sentire, ma in somma compresi allora (e allora appunto scrissi
queste parole) che tale è la natura umana, onde mi erano men cari quei beni ch’io
aveva qualunque fossero, perch’io li comunicava con lui, forse parendomi che
non fossero più degno termine di tanti stenti dopo che non costavano niente a
un altro che si trovava nelle mie circostanze, e con meno merito di me, ec.
Quindi applico ai Cappuccini, i quali trovando la sorte dei fratelli minori che
sono i novizzi dipendente da loro, seguono gl’impulsi di questa inclinazione
che ho detto, e non soffrono che si possano dire a se stessi essere scarso quel
bene a cui son giunti poichè altri gli acquista con assai meno travaglio di
loro, nè che abbiano a provare il dispiacere che questi tali non soffrano quegl’incomodi
ch’essi in quelle circostanze hanno sofferti.
[46] Quando colla lettura col tratto col
discorso coi trattenimenti o letterari o di qualunque genere (ma massime coi
libri in quanto al gusto dello scrivere, e colla conversazione degli uomini in
quanto al costume) ci siamo formati un abito cattivo, crediamo che quello sia
natura, giacchè non c’è cosa tanto simile e facile ad esser confuso colla
natura anche da’ più oculati e da’ filosofi, quanto l’abito; e pretendiamo di
dover seguire quell’abito p.e. nello scrivere, (giacchè di questo io voglio qui
parlare specialmente come quelli a cui pare che lo scrivere in un italiano francese
sia natura, e così la corruzione del gusto in ogni genere e parte di scrittura
e di stile) dicendo ch’è natura, e che così vi viene spontaneamente e che la
poesia deve fluire dalla natura e cose tali. Ma non è natura, è abito, e
abitaccio pessimo, e volete vederlo? se siete veramente di buona indole per le
Belle Arti leggete i veri poeti e scrittori, particolarmente i greci, e vedrete
subito che quella è natura, e vi maraviglierete (come infatti succede, che
quasi paiano due naturalezze e non si sappia capir come, e dall’altra parte
questa duplicità ci faccia stupire) come sia tanto differente da quella che voi
credete che sia natura, eppur non potete negare che questa non sia perch’è
troppo evidente. Ed ecco se volete esser poeta e servirvi di quello che vi
somministra la natura, naturalmente, e rettamente, cominciate, se siete uomo di
giudizio, a conoscer la necessità assolutissima dello studio, (oh bestemmia!
necessario lo studio per iscrivere e poetar bene) e della lezione dei classici
e delle arti poetiche e dei trattati ec. ec. e vedete appoco appoco la somma
difficoltà d’imitare e seguir quella natura che prima confondendola coll’abito
giudicavate così facile a esprimere, perchè infatti non c’è cosa più facile a
seguire che l’abito, nè più difficile a contrariare, il che appunto fa la somma
difficoltà del seguir la natura vera, e ciò non si ottiene senza un contrabito
tanto più difficile del primo quanto bisogna erigerlo dai fondamenti, (del che
in quell’altro essendo venuto su appoco appoco, nell’età fresca, e da se, senza
nostra fatica, non ci eravamo accorti) erigerlo sbarbando prima l’altro, e
questa è la gran fatica che in quell’altro non ci fu punto, e finalmente
erigerlo continuarlo e finito conservarlo in mezzo a infinite cose (come letture
necessarie, discorsi, commercio usuale per negozi ec. trattenimenti
conversazioni corrotte secondo il solito, corrispondenze ascoltazione di
discorsi altrui ec. ec.) che lo contrastano, tanto più pericolose quanto vi
richiamano a quell’altro abito prima già fatto, onde il luogo resta sempre
lubrico, ed è facile lo scivolare nel cattivo. E così è necessarissimo lo
studio per ben servirsi di quella natura, senza la quale bensì non si fa
niente, ma colla quale sola avreste ben forse potuto quasi tutto, ma non potete
più nulla, anzi meno del nulla, giacchè non potete non far male, a cagione dell’abito
inevitabile fatto contro di lei.
La
grazia non può venire altro che dalla natura, e la natura non istà mai secondo
il compasso della gramatica della geometria dell’analisi della matematica ec.
Quindi la scarsezza di grazia nella lingua francese tutta analitica e tecnica e
regolare, e diremo angolare, massima scarsezza nell’esteriore dello stile, e
poi anche nell’interiore ec. se bene se ne compensano col nominar la grazia 20.
Volte per pagina, e [47] non c’è un libro francese dove non troviate a
ogni occhiata grace, grace massime parlando dei libri della loro
nazione, encomiandoli ec. Grace grace, mi viene allora in bocca, et
non erat grace (pax pax et non erat pax, ma non so se così veramente dica
S. Paolo, o qual altro Scrittor sacro). V. questi pensieri p.92-94.
Stridore notturno delle
banderuole traendo il vento.
Si suol
dire che la resistenza stimola e dà forze di compire, e condurre a fine quello
che si è tentato. Ora io soggiungo che spessissimo se io senza resistenza avrei
fatto dieci, sopraggiunta la resistenza farò quindici e venti. E questo spesso
di assoluta e determinata volontà, non già per soprabbondanza meccanica degli
effetti della forza impiegata maggiore del bisognevole per la resistenza
incontrata, e non contrappesata diligentemente alla resistenza, come se io
voglio spingere una cosa da un luogo all’altro, provo che non cede alla prima
spinta, accresco la forza, e questa me la caccia più lontano ch’io non voleva.
Ma dico per deliberata volontà: p.e. do una spinta e non giova, un’altra e non
fa, la terza parimente, alla fine mi piglia la rabbia, acchiappo la cosa colle
mani, e la strascino molto più in là ch’io non voleva prima ch’ella andasse, e
volendo ch’ella stia dove dee, bisogna che la riporti indietro al luogo
conveniente, e così fo. E la distanza alla quale l’ho portata è spesso più che
doppia ed anche tripla di quella a cui la voleva spingere. Questo accade perch’io
allora non considero più e non ho per fine della mia azione, di farla andare in
quel tal luogo, ma propriamente di vincere e vendicare quella resistenza, e
mostrare la superiorità del mio volere e della mia forza sopra il suo volere e
la sua forza, la quale tanto più si dimostra, e la vendetta e la vittoria è
tanto maggiore quanto io la porto più lontano, e insomma volti allora a quel
fine miriamo alla perfezione di esso che così si conseguisce, e perciò non c’importa
che veniamo a nuocere a quel primo fine del quale effettivamente in quel punto
siamo dimenticati. Applico ora questo caso fisico ai morali.
Perciò
si vuole che le parole che si hanno da aggiungere alla nostra lingua o per
arricchirla, o per necessità ec. si prendano dal latino e non dal francese nè
dal tedesco ec. chiamando quelle buone e approvandole, e queste barbare, perchè
quelle ordinariamente o almeno assai più spesso e facilmente consentono coll’indole
della lingua nostra, e le lasciano la sua forma e sembianza nativa e la sua
grazia ec. ma queste dissuonano manifestissimamente e sconvengono, e
sconvenendo fanno la barbarie, e se son molte guastano le forme native, e la
venustà e grazia propria e primitiva della lingua. E questa sconvenienza si
scorge anche nelle semplici parole, com’è chiaro, vedendosi subito che vengono
da un’altra fonte, laddove le latine non possono venire da un’altra fonte,
essendo da quella stessa fonte venuta si può dir tutta intera la lingua
italiana, e benchè da essa sia venuta anche la francese, non però la italiana è
venuta dalla francese, e quindi per quanto la sorgente sia la stessa, nel corso
si può bene il rivo essere, anzi s’è mutato, e alterato, ed ha acquistato
proprietà tali, che non ha più nessun diritto di dare ad un altro rivo nato
dalla stessa sorgente, le sue acque, come [48] a lui convenienti.
Laddove la fonte non essendo alterata, restiamo sempre in diritto d’attingerne,
e anche quivi con giudizio, e quanto è permesso dalle alterazioni che ha
sofferte il nostro proprio rivo, per cagione delle quali alcune acque della
stessa sorgente non ci si potrebbero mescolare senza sconvenienza. Ed ecco la
cagione del diverso diritto, e delle diverse conseguenze che si devono dedurre
dalla fratellanza delle lingue e dalla figliolanza. Quello poi che ho detto
delle parole va inteso e molto più intensamente delle frasi che corrompono più
e sconvengono più, avendo faccia più manifestamente straniera e dissimile. E
che questa non sia pedanteria e cieca venerazione dell’antichità si vede chiaro
da questo che non solo non amiamo ma detestiamo le parole greche, quantunque la
lingua latina ne prendesse in tanta copia, e appunto per uso d’arricchirsi, e
per le diverse necessità d’esprimer questa o quella cosa mancante di parola
latina dove senza crearla di nuovo la levavano di peso dal greco ed è costume
usitatissimo dei latini come di Cicerone di Celso ec. quantunque principalmente
di chi scriveva di scienze come Plinio ec. ma anche Orazio com’è notissimo ec.
Ora perchè queste hanno viso per noi straniero le fuggiamo di cuore, ed anche
gran parte delle frasi strettamente prese, giacchè dei modi più largamente,
infiniti ne convengono a maraviglia alla nostra lingua. Al contrario però di
noi la lingua francese non fa una difficoltà al mondo di spogliare la lingua
greca secondo i suoi bisogni e in questi ultimi tempi se n’è empiuta e
satollata strabocchevolmente, onde già fanno dizionari delle parole francesi
derivate dal greco cosa per altro scellerata che guasta quella lingua
orrendamente (come guasta indegnamente la nostra la barbarie comunissima di usar
queste stesse parole greche massime le moderne pigliandole non dal greco ma dal
francese colla stessa barbarie però, quantunque i più neppur sappiano che siano
interamente greche ma le abbiano per pure francesi, come despota, demagogo,
anarchia, aristocrazia, democrazia, colle terminazioni greche sole p.e.
civismo, filosofismo ec. ec. che in gran parte son politiche messe fuori dalla
repubblica francese ma ce ne ha di tutti i generi) e in principal modo perch’essendo
adottata da tutti gli scrittori di scienze la nomenclatura tratta dal greco
onde non c’è scienza, anzi neppure arte, mestiere, rettorica gramatica ec. che
non sia piena di greco, e perfino nel suo nome e in quello delle sue parti non
sia intieramente greca, le parole greche essendo necessariamente di quel
sembiante che tutti siamo soliti di vedere nelle usate dagli scienziati, danno
alla lingua francese (e darebbero a qualunque lingua e daranno all’italiana se
dalla francese saranno trasportate stabilmente nella nostra) un’aria indegna di tecnicismo (per usare una di queste belle parole) e di geometrico e di
matematico e di scientifico che ischeletrisce la lingua, riducendola in certo
modo ad angoli e perchè non c’è cosa più nemica della natura che l’arida
geometria, le toglie tutta la naturalezza e la naïveté, e la popolarità (onde
nasce la bellezza) e la grazia e la venustà, e proprietà, ed anche la forza e
robustezza ed efficacia mancando anche questa assolutamente al linguaggio
tecnico che non fa forza col linguaggio, ma con quello che risulta dalle parole
cioè col significato loro e coll’argomento e ragione, o col concetto spiegato
freddamente con esse.
[49] La favola del pavone vergognoso
delle sue zampe pecca d’inverisimile anzi d’impossibile, giacchè non ci può
esser parte naturale e comune in verun genere d’animale, che a quello stesso
genere non paia conveniente, e quando sia nel suo genere ben conformata non
paia bella: giacchè la bellezza è convenienza, e questa è idea ingenita nella
natura; quali cose però si convengano, questo è quello che varia nelle idee non
solo dei diversi generi di animali, ma eziandio degl’individui di uno stesso
genere, come negli uomini, agli Etiopi (per non uscire dalla bellezza del
corpo) par bello il color nero, il naso camoscio, le labbra tumide, e brutti i
contrari che a noi paion belli, e tra i bianchi questa e quella nazione si
diversifica assaissimo nel valutar come bella questa o quella forma che all’altra
nazione dispiacerà. Ma che la natura abbia fatto parte stabile ed essenziale di
verun genere animalesco che a quello stesso genere paia brutta è impossibile,
giacchè non è possibile che un genere non abbia nessuno cui stimi bello, e
questo vediamo parimente nella specie, e le stesse differenze ch’io ho notate
nei giudizi degli uomini provengono dalla differente forma loro come negli
Etiopi, Lapponi, Selvaggi, isolani di cento figure ec. E le altre differenze,
come nello stimar più l’occhio ceruleo che il nero, ec. versano non intorno a
cose stabili e immutabili, ma, com’è chiaro da questo esempio, mutabili, e
differenti in una stessa specie secondo gl’individui, giacchè altrimenti la
natura avrebbe fatto una specie di bruttezza assoluta, se parendo bruttezza a
noi, paresse anche a quel tal genere o specie. Ma la bruttezza assoluta ben noi
ce la figuriamo che vedendo le zampacce del pavone, e parendoci sconvenienti al
resto del suo corpo, non crediamo che possano parer belle a nessuno animale, ma
il fatto non istà così, anzi al pavone parebbono brutte nel proprio genere
quelle zampe più grosse carnose morbide ornate vestite ec. che a noi parrebbono
più belle, e giudica brutto quello del suo genere (o specie che la vogliamo
dire) che non ha le zampe perfettamente secche asciutte ec.
Quello
che ho detto nel principio di questo pensiero me ne porge un altro, cioè che
infatti quella favola non pecca d’inverisimile non essendo scritta per li
pavoni ma per noi, i quali naturalmente siamo portati a credere che quelle
zampe bruttissime agli occhi nostri sieno tali anche agli occhi dei pavoni. E
quantunque il filosofo facilmente conosca il contrario, tuttavia scrive il
poeta pel volgo, al quale non è inverisimile il dir p.e. che le stelle cadano,
anzi lo dice Virgilio e si dice da’ villani e da’ poeti tuttogiorno, benchè a
qualunque non ignorante sia cosa impossibile.
[50] A quello che ho detto nel 3.
pensiero avanti al presente si aggiunga che le parole nuove si devono anche
cavare dalle radici che sono nella propria lingua, e questa è una fonte
principalissima e dalla quale Dante che passa pel creatore della lingua derivò
una grandissima, e forse la massima parte delle voci ch’egli introdusse. E i
derivati da questa fonte serbando com’è naturale il colore nativo della lingua
più che qualunque altro, se son fatti con giudizio, vengono a formare il
miglior genere di voci nuove che si possano creare ec. ec. Ma questa fonte è
tanto più scarsa quanto meno sono le radici cioè quanto la lingua è meno ricca,
onde la lingua francese cedendo in questo senza paragone all’italiana non è
dubbio che di voci nuove secondo il bisogno, che non alterino la fisonomia
della lingua ma consuonino ec. dev’essere molto più atta a produrne la lingua
italiana che la francese. E infatti questa che passa per ricchissima in
vocaboli delle arti e scienze ec. è infatti poverissima, giacchè questi vocaboli
non li piglia dal suo fondo, ma di peso dalle altre lingue come dalla greca
onde disdicono e stuonano manifestamente col resto della lingua e l’alterano e
imbastardiscono, e ciò perchè non sono lingue di uno stesso genere ma
diversissime, il cui genio anche nelle pure voci non ha che fare con quello
della francese, all’opposto della latina rispetto all’italiana principalmente.
Ora questa ricchezza tanto è loro quanto nostra, perchè è chiaro che non
trattandosi di ricchezza aétñxJvn ma di roba presa altrove, tutti
possono prenderla egualmente e colla stessa spesa, massime noi italiani, ai
quali non è niente più difficile da stereotupÛa di fare stereotipia, di quello che
ai francesi stéréotypie ec. ec. e di formar nuovi composti greci com’è questo
ec. sì che è ricchezza fittizia, non propria, ascita, misera, comune a tutti, e
dannosa. Oltracciò i derivati dalle proprie radici sono subito di noto
significato, e intesi da tutti, così in massima parte dalla lingua latina
(dalla quale già non si dee prendere quello che non sarebbe comunemente inteso)
ma questi altri non si capiscono da nessuno se non ci mettete la spiegazione
etimologica ec. ovvero se non li mettete nel vocabolario col loro significato,
quando non sieno appoco appoco passati in uso, ma ciò non può esser successo
senza il detto massimo inconveniente nel principio.
Anche la
stessa negligenza e noncuranza e sprezzatura e la stessa inaffettazione può
essere affettata, risaltare ec. Anche la semplicità la naturalezza la spontaneità.
V. p.160.
Dolor
mio nel sentire a tarda notte seguente al giorno di qualche festa il canto
notturno de’ villani passeggeri. Infinità del passato che mi veniva in mente,
ripensando ai Romani così caduti dopo tanto romore e ai tanti avvenimenti ora
passati ch’io paragonava dolorosamente con quella profonda quiete e silenzio
della notte, a [51] farmi avvedere del quale giovava il risalto di
quella voce o canto villanesco.
Il più
solido piacere di questa vita è il piacer vano delle illusioni. Io considero le
illusioni come cosa in certo modo reale stante ch’elle sono ingredienti
essenziali del sistema della natura umana, e date dalla natura a tutti quanti
gli uomini, in maniera che non è lecito spregiarle come sogni di un solo, ma
propri veramente dell’uomo e voluti dalla natura, e senza cui la vita nostra
sarebbe la più misera e barbara cosa ec. Onde sono necessari ed entrano
sostanzialmente nel composto ed ordine delle cose.
La
varietà è tanto nemica della noia che anche la stessa varietà della noia è un
rimedio o un alleviamento di essa, come vediamo tutto giorno nelle persone di
mondo. All’opposto la continuità è così amica della noia che anche la
continuità della stessa varietà annoia sommamente, come nelle dette persone, e
in chicchessia, e, per portare un esempio, ne’ viaggiatori avvezzi a mutar
sempre luogo e oggetti e compagni e alla continua novità, i quali non è dubbio
che dopo un certo non lungo tempo, non desiderino una vita uniforme, appunto
per variare, colla uniformità dopo la continua varietà. V. Montesquieu
Essai sur le Goût. De la variété. Amsterd. 1781. p.378. lin. ult. et des Contrastes. p.384-385.
Intendo
per innocente non uno incapace di peccare, ma di peccare senza rimorso. V.
p.276.
Può mai
stare che il non esistere sia assolutamente meglio ad un essere che l’esistere?
Ora così accadrebbe appunto all’uomo senza una vita futura.
Non mi
maraviglio nè che gli antichi Ebrei e, credo, gran parte o tutti gli orientali
(v. le lettere premesse aux principes discutés de la société Hébreo-Capucine
etc.) e così i greci mancassero p.e. del v. nè che avessero alcune
lettere che noi non abbiamo, come gli Ebrei p.e. il u i greci il J il x ec. Le lettere che noi crediamo comunemente
essere proprio tante e non più quanto le nostre, o almeno in genere, sono in
effetto moltissime giacchè non vengono dalla natura ma dall’assuefazione io
dico in particolare, cioè la facoltà del parlare e articolare e formare diversi
suoni viene dalla natura, ma la qualità e differenza di questi suoni ossia
delle lettere viene dall’assuefazione. E infatti sono infiniti i modi [52]di
collocare ec. la lingua i denti le labbra ec. quelle parti che formano i detti
suoni, e noi vediamo come piccole differenze di collocazione formino suoni
diversissimi come il p. e il b. per esempio. Ora perchè noi da
fanciulli non abbiamo sentito altro che i suoni del nostro alfabeto abbiamo
solo imparato quelle tali collocazioni, e a quelle assuefatti e incapaci d’ogni
altra crediamo 1. che altre non ve ne siano in natura, 2. che tutte sieno
appresso a poco comuni per natura a tutti. Ma la prima cosa è mostrata falsa
dalle tante lettere degli alfabeti antichi o stranieri che noi non sappiamo
pronunziare o ignorandone il suono, come spesso negli antichi (quantunque più
spesso crediamo di saperlo), o il mezzo, come negli stranieri; e da molte altre
prove. L’altra cosa da quello che ho detto di sopra e dall’esperienza continua
di tanti che per minime circostanze piuttosto accidentali ed estrinseche che
organiche restan privi di certe lettere. Ora non è dunque maraviglia che gli
alfabeti dei popoli siano differenti secondo la differente assuefazione
tradizionale, da cui si dee rimontare alla origine d’essi alfabeti. E se ne
deduce che in natura o non c’è alfabeto, o molto più ricco che non si crede
volgarmente.
Un
esempio di quanto fosse naturale e piena di amabili e naturali illusioni la
mitologia greca, è la personificazione dell’eco.
Non ogni
proposito deve nascondere il poeta, come p.e. non dee nascondere il proposito d’istruire
nel poema didascalico ec. in somma i propositi manifesti e che si espongono
p.e. nello stesso principio del poema. Canto l’armi pietose ec. Ma sì bene
quelli che non vanno naturalmente col proposito manifesto, come col narrare il
dipingere, coll’istruire il dilettare, cose che il poeta si propone, ma non dee
mostrare di proporselo quantunque debba mostrare quegli altri propositi
manifesti, i quali servono più che altro di pretesto e manto ai propositi
occulti. E questo perchè questi ultimi non sono naturali come è naturale che
uno narri ec. ma deve parer che quel diletto, quella viva rappresentazione ec.
venga spontanea e senza ch’il poeta l’abbia cercata, il che mostrerebbe l’arte
e lo studio e la diligenza, e in somma non sarebbe naturale, giacchè
figurandoci il poeta nello stato naturale è un uomo che preso il suo tema, e
questo è il proposito manifesto, venga giù dicendo quello che gli si
somministra spontaneamente come fanno tutti quelli che parlano, e quantunque
egli qui metta un’immagine, qui un affetto, qui un suono espressivo, qui ec. e
tutto a bella posta e pensatamente, non deve parer ch’egli lo faccia così, ma
solo naturalmente, e così portando il filo del suo discorso, e l’accaloramento [53]
della sua fantasia e il suo cuore ec. Altrimenti la natura non è imitata
naturalmente e questi sono i propositi diremo così secondari, quantunque
spessissimo in realtà sieno primari, (come ne’ poemi didascalici dove il fine
primario par l’istruire, e deve parere, quando in verità è solo un mezzo
essendo il vero fine il dilettare) i quali bisogna nascondere. E oltre il poeta
s’intenda l’oratore lo storico, ed ogni qualunque scrittore. Affettazione in
latino viene a dir lo stesso che proposito, e presso noi lo stesso che
proposito manifesto, anzi questa può esserne la definizione
Spesso
ho notato negli scritti de’ moderni psicologi che in molti effetti e fenomeni
del cuore ec. umano, nell’analizzarli che fanno e mostrarne le cagioni, si
fermano molto più presto del fine a cui potrebbero arrivare, assegnandone certe
ragioni particolari solamente, e questo perchè vogliono farli parere
maravigliosi, come il Saint-Pierre negli studi della natura lo Chateaubriand
ec., e non vanno alla prima o quasi prima cagione che troverebbero semplice e
in piena corrispondenza col resto del sistema di nostra natura. Questo ridurre
i diversi fenomeni dell’animo umano a principii semplici scema la maraviglia, e
anche la varietà perchè moltissimi si vedrebbero derivati da un solo principio
modificato leggermente. Costoro parlano sempre enfaticamente, notano con molta
acutezza il fenomeno, ma datane (se la danno, perchè spesso credono e fanno
credere ch’il fenomeno sia inesplicabile, vale a dire senza rapporto conosciuto
al resto del sistema giacchè da ciò solo nasce la maraviglia in qualunque cosa
del mondo) una ragione immediata e secondaria ed egualmente maravigliosa, non
rimontano come sarebbe pur facile alla sorgente che ridurrebbe il fenomeno e le
sue ragioni secondarie alle classi consuete. Io credo che chi istituisse quest’analisi
ultima farebbe cosa nuova (sia per la mala fede, o la minore acutezza degli
antecessori) e semplificherebbe d’assai la scienza dell’animo umano,
rapportando gl’infiniti fenomeni che sembrano anomalie (perchè infatti la
scienza non è ancora stabile nè ordinata e ridotta in corpo) a principii
universali o poco lontani da essi. Opera principale e formatrice di tutte le
scienze e scopo ordinario di chi ricerca le cagioni delle cose. P.e. il
desiderio naturale degli uomini di supporre animate le cose inanimate tanto
manifesto ne’ fanciulli deriva dal desiderio e propensione nostra verso i
nostri simili, principio capitale, e primitivo, e fecondissimo. V. il mio
discorso sui romantici.
[54] Quando la poesia per tanto tempo
sconosciuta entrò nel Lazio e in Roma, che magnifico e immenso campo di
soggetti se le aperse avanti gli occhi! Essa stessa già padrona del mondo, le
sue infinite vicende passate, le speranze, ec. ec. ec. Argomenti d’infinito
entusiasmo e da accendere la fantasia e ‘l cuore di qualunque poeta anche
straniero e postero, quanto più romano o latino, e contemporaneo o vicino
proporzionatamente ai tempi di quelle gesta? Eppure non ci fu epopea latina che
avesse per soggetto le cose latine così eccessivamente grandi e poetiche,
eccetto quella d’Ennio che dovette essere una misera cosa. La prima voce della
tromba epica che fu di Lucrezio, trattò di filosofia. In somma l’imitazione dei
greci fu per questa parte mortifera alla poesia latina, come poi alla
letteratura e poesia italiana nel suo vero principio, cioè nel 500. l’imitazione
servile de’ greci e latini. Onde con tanto immensa copia di fatti nazionali,
cantavano, lasciati questi, i fatti greci, nè io credo che si trovi indicata
tragedia d’Ennio o d’Accio ec. d’argomento latino e non greco. Cosa tanto
dannosa, massime in quella somma abbondanza di gran cose nazionali, quanto
ognuno può vedere. E lo vide ben Virgilio col suo gran giudizio, non però la
schivò affatto anzi l’argomento suo fu pure in certo modo greco, (così le
Buccoliche e le Georgiche di titolo e derivazione greca) oltre le tante
imitazioni d’Omero ec. ma proccurò quanto più potè di tirarlo al nazionale, e
spesso prese occasione di cantare ex professo i fatti di Roma. Similmente
Orazio uomo però di poco valore in quanto poeta, fra tanti argomenti delle sue
odi derivate dal greco, prese parecchie volte a celebrare le gesta romane.
Ovidio nel suo gran poema cioè le Metamorfosi prese argomento tutto greco.
Scrisse però i fasti di Roma ma era opera piuttosto da versificatore che da
poeta, trattandosi di narrare le origini, s’io non erro, di quelle cerimonie
feste ec. in somma non prese quei fatti a cantare, ma così, come a
trastullarcisi. Del resto la letteratura latina si risentì bene dello stato di
Roma colla magniloquenza che, si può dire, aggiunse alle altre proprietà dell’orazione
ricevute da’ greci, e a qualcune sostituì, qualità tutta propria de’ latini,
come nota l’Algarotti, colla nobiltà e la coltura dell’orazione del periodo ec.
molto maggiore che non appresso gli antichi greci classici, eccetto, e forse
neppure, Isocrate.
Una
prova di quello che ho detto di sopra intorno alle lettere, o piuttosto un
esempio, è l’u gallico (fino una vocale) sconosciuto a noi italiani [55] settentrionali,
e non so se ai latini, e a quali altri stranieri presentemente. Il quale fu
proprio interamente dell’alfabeto greco (e non so se dicano lo stesso del vau
ebreo) come ora è proprio del francese, e come l’u nostro appresso questi è
formato dall’ou, così appuntino fra i greci (eccetto che questi l’hanno anche
ne’ dittonghi au eu hu vu dove i francesi in nessun altro). Il che, se non c’è
altra ragione in contrario credo che i francesi (dico tanto quest’u detto
gallico quanto esso dittongo ou) l’abbiano avuto dalla Grecia nelle spedizioni
che fecero colà quando fondarono la gallogrecia ec. (e credo da S. Ireneo gallo
che scrisse in greco, e Favorino parimente ec. che la lingua greca fosse
veramente comune nella Gallia, v. gli Storici) onde reso ¢pixÅrion, sia poi rimasto in Francia e
anche nella Gallia transalpina cioè in Lombardia, malgrado delle mutazioni d’abitatori
di queste provincie ec. E il c e il g schiacciato non sono evidentemente due
lettere diverse dagli aperti ch e gh? E non mancarono e mancano ai greci? (ai
latini non so che dicano gli eruditi) ed ora ai francesi, e credo agli
spagnuoli agl’inglesi ec.?
Se tu
domanderai piacere ad uno che non possa fartisi senza ch’egli s’acquisti l’odio
d’un altro, difficilissimamente (in parità di condizione) l’otterrai non
ostante che ti sia amicissimo. E pure per quell’odio si guadagnerebbe o si
crescerebbe il vostro amore e forse grandissimo, sì che le partite par che
sarebbero uguali. Ma infatti pesa molto più l’odio che l’amore degli uomini, essendo
quello molto più operoso. Qui si fermerebbero gli psicologi moderni lasciando
di cercare il principio di questa differenza, ch’è manifestissimo, cioè l’amor
proprio. Giacchè chi segue il suo odio fa per se, chi l’amore per altrui, chi
si vendica giova a se, chi benefica, giova altrui, nè alcuno è mai tanto
infiammato per giovare altrui quanto a se.
Vita
tranquilla delle bestie nelle foreste, paesi deserti e sconosciuti ec. dove il
corso della loro vita non si compie meno interamente colle sue vicende,
operazioni, morte, successione di generazioni ec. perchè nessun uomo ne sia
spettatore o disturbatore nè sanno nulla de’ casi del mondo perchè quello che
noi crediamo del mondo è solamente degli uomini.
A. S’io
fossi ricco ti vorrei donar tesori. B. Oibò, non vorrei ch’ella se ne privasse
per me. Prego Dio che non la faccia mai ricca.
Linguaggio
mutuo delle bestie descritto secondo le qualità manifeste di ciascuna potrebbe
essere una cosa originale e poetica introdotta così in qualche poesia, come, ma
poi scioccamente se ne serve, il Sanazzaro nell’Arcadia prosa 9. ad imitazione
di quella favola, s’io non erro, circa Esiodo.
Voce e
canto dell’erbe rugiadose in sul mattino ringrazianti e lodanti Iddio, e così
delle piante ec. Sanazzaro ib. e mi pare immagine notabile e simile a quella
dei rabbini dell’inno mattutino del sole ec. come anche l’altra immagine del
Sanazzaro ivi, di un [56] paese molto strano, dove nascon le genti
tutte nere, come matura oliva, e correvi sì basso il Sole, che si potrebbe di
leggiero, se non cuocesse, con la mano toccare.
Com’è
costantissimo e indivisibile istinto di tutti gli esseri la cura di conservare
la propria esistenza, così non è dubbio che quasi il compimento di questa non
sia l’esserne contento, e l’odiarla o non soddisfarsene non sia un principio
contraddittorio il quale non può stare in natura e molto meno in quell’essere
il quale senza entrare nella teologia, è chiaro ch’essendo l’ordine animale il
primo in questo globo e probabilmente in tutta la natura cioè in tutti i globi,
ed egli essendo evidentemente il sommo grado di quest’ordine, viene a essere il
primo di tutti gli esseri nel nostro globo. Ora vediamo che in questo è tanta
la scontentezza dell’esistenza, che non solo si oppone all’istinto della
conservazione di lei, ma giunge a troncarla volontariamente, cosa
diametralmente contraria al costume di tutti gli altri esseri, e che non può
stare in natura se non corrotta totalmente. Ma pur vediamo che chiunque in
questa nostra età sia di qualche ingegno deve necessariamente dopo poco tempo
cadere in preda a questa scontentezza. Io credo che nell’ordine naturale l’uomo
possa anche in questo mondo esser felice, vivendo naturalmente, e come le
bestie, cioè senza grandi nè singolari e vivi piaceri, ma con una felicità e
contentezza sempre, più o meno, uguale e temperata (eccetto gl’infortuni che
possono essere nella sua vita, come gli aborti le tempeste e tanti altri
disordini (accidentali, ma non sostanziali) in natura) insomma come sono felici
le bestie quando non hanno sventure accidentali ec. Ma non già credo che noi
siamo più capaci di questa felicità da che abbiamo conosciuto il voto delle
cose e le illusioni e il niente di questi stessi piaceri naturali del che non
dovevamo neppur sospettare: tout homme qui pense est un être corrompu, dice il
Rousseau, e noi siamo già tali. E pure vediamo che questi piccoli diletti non
ostante che noi siamo già guasti pur ci appagano meglio che qualunque altro
come dice Verter ec. e vediamo il minore scontento dei contadini, ignoranti ec.
(quantunque essi pure assai lontani dallo stato naturale), che dei culti, e dei
fanciulli massimamente, che dei grandi. E l’esser l’uomo buono per natura, e
guastarsi necessariamente nella società, può servir di prova a questo sistema,
e il veder che le bestie non hanno tra loro altra società che per certi
bisogni, del resto vivono insieme senza pensar l’una all’altra, e che l’istinto
si vien perdendo a proporzione che la natura è alterata dall’arte onde è grande
nelle bestie e nei fanciulli, piccolo negli uomini fatti, ma ciò non prova che
l’uomo sia fatto per l’arte ec. giacchè la natura gli aveva dato quegl’istinti
ch’egli perde poi ec. Sì che si potrebbe pensare che la differenza di vita fra
le bestie e l’uomo sia nata da circostanze accidentali e dalla diversa
conformazione del corpo umano più atta alla società ec.
[57] S’è osservato che è proprietà degli
antichi poeti ed artisti il lasciar molto alla fantasia ed al cuore del lettore
o spettatore. Questo però non si deve prendere per una proprietà isolata ma per
un effetto semplicissimo e naturale e necessario della naturalezza con cui nel
descrivere imitare ec. lasciano le minuzie e l’enumerazione delle parti tanto
familiare ai moderni descrivendo solo il tutto con disinvoltura, e come chi
narra non come chi vuole manifestamente dipingere muovere ec. Nella stessa
maniera Ovidio il cui modo di dipingere è l’enumerare (come i moderni
descrittivi sentimentali ec.) non lascia quasi niente a fare al lettore,
laddove Dante che con due parole desta un’immagine lascia molto a fare alla
fantasia, ma dico fare non già faticare, giacchè ella spontaneamente concepisce
quell’immagine e aggiunge quello che manca ai tratti del poeta che son tali da
richiamar quasi necessariamente l’idea del tutto. E così presso gli antichi in
ogni genere d’imitazione della natura.
I nostri
veri idilli teocritei non sono nè le egloghe del Sanazzaro nè ec. ec. ma le
poesie rusticali come la Nencia, Cecco da Varlungo ec. bellissimi e similissimi
a quelli di Teocrito nella bella rozzezza e mirabile verità, se non in quanto
sono più burleschi di quelli che pur di burlesco hanno molto spesso una tinta.
Circa le
immaginazioni de’ fanciulli comparate alla poesia degli antichi vedi la
verissima osservazione di Verter sul fine della lettera 50. Una terza sorgente
degli stessi diletti e delle stesse romanzesche idee sono i sogni.
Il
principio universale dei vizi umani è l’amor proprio in quanto si rivolge sopra
lo stesso essere, delle virtù, lo stesso amore in quanto si ripiega sopra
altrui, sia sopra gli altrui, sia sopra la virtù, sia sopra Dio. ec.
Di
alcuni principi che si sieno uccisi per evitare qualche grande sventura o per
non saperne sopportare qualcuna già sopraggiunta loro, si legge, come di
Cleopatra Mitridate ec. e più, anzi forse solamente fra gli antichi. Ma di
quelli che si sieno uccisi per le altre cagioni che producono ora il suicidio,
come la malinconia l’amore ec. non si legge ch’io sappia in nessuna storia.
Eppure lo scontento della vita e la noia e la disperazione dovrebb’essere tanto
maggiore in loro [58] che negli altri, in quanto questi possono supporre
se non colla ragione (la quale è ben persuasa del contrario) almeno coll’immaginazione
(che non si persuade mai) che ci sia uno stato miglior del loro, ma quelli già
nell’apice dell’umana felicità, trovandola vana anzi miserabilissima, non
possono più ricorrere neppur col pensiero in nessun luogo, arrivati per così
dire al confine e al muro, e quindi dovrebbono guardar questa vita come
abitazione veramente orribile per ogni parte e disperata, se già i loro
desideri non si volgono ai gradi e condizioni inferiori, ovvero a quei
miserabili accrescimenti di felicità che un principe si può sognare, come
conquiste ec.
Disse la
Dama: Voi mi avete rappacificata colla poesia: Godo assai, rispose quegli, d’avere
riconciliate insieme due belle cose.
Non ci
sarebbe tanto bisogno della viva voce del maestro nelle scienze se i
trattatisti avessero la mente più poetica. Pare ridicolo il desiderare il
poetico p.e. in un matematico; ma tant’è: senza una viva e forte immaginazione
non è possibile di mettersi nei piedi dello studente e preveder tutte le
difficoltà ch’egli avrà e i dubbi e le ignoranze ec. che pure è necessarissimo
e da nessuno si fa nè anche da’ più chiari, che però non s’impara mai pienamente
una scienza difficile p.e. le matematiche dai soli libri.
Tutto
si è perfezionato da Omero in poi, ma non la poesia.
Per un’Ode
lamentevole sull’Italia può servire quel pensiero di Foscolo nell’Ortis lett.19
e 20 Febbraio 1799. p.200. ediz. di Napoli 1821.
Una
facezia del genere ch’io ho detto in un altro pensiero essere stato proprio
degli antichi è quella degli Antiocheni che dicevano dell’imperatore Giuliano
che aveva una barba da farne corde, (Iulian. in Misopogone) la qual facezia
allora applaudita e sparsa per tutta la città e capace di muover Giuliano a
scrivere un libro ironico e giocoso (certo elegante e negli scherzi si può dir
Attico e Lucianesco e infinite volte superiore ai suoi Caesares, senza
sofistumi nello stile nè in altro, e senza affettazioni nè pur nella lingua per
altro elegante e ricca e ciò perchè questo è un libro scritto per circostanza e
non ¡pideiktikòw come i Caesares) contro gli Antiocheni, ora ai nostri delicati, francesi
ec. parrebbe grossolana, e di pessimo gusto. V. p.312.
E
tanto è miser l’uom quant’ei si reputa, disse eccellentemente il Sanazzaro egloga ottava. Ora
in quello stato ch’io diceva in un pensiero poco sopra, egli non riputandosi
misero nè anche sarebbe stato, come ora tanti in condizione alquanto [59] simile
a quella che i’ho detto, poco riputandosi miseri, lo sono meno degli altri, e
così tutti secondo che si stimano infelici.
Quando l’uomo
concepisce amore tutto il mondo si dilegua dagli occhi suoi, non si vede più se
non l’oggetto amato, si sta in mezzo alla moltitudine alle conversazioni ec.
come si stasse in solitudine, astratti e facendo quei gesti che v’ispira il
vostro pensiero sempre immobile e potentissimo senza curarsi della maraviglia
nè del disprezzo altrui, tutto si dimentica e riesce noioso ec. fuorchè quel
solo pensiero e quella vista. Non ho mai provato pensiero che astragga l’animo
così potentemente da tutte le cose circostanti, come l’amore, e dico in assenza
dell’oggetto amato, nella cui presenza non accade dire che cosa avvenga, fuor solamente
alcuna volta il gran timore che forse forse gli potrà essere paragonato.
Io
soglio sempre stomacare delle sciocchezze degli uomini e di tante piccolezze e
viltà e ridicolezze ch’io vedo fare e sento dire massime a questi coi quali
vivo che ne abbondano. Ma io non ho mai provato un tal senso di schifo orribile
e propriamente tormentoso (come chi è mosso al vomito) per queste cose, quanto
allora ch’io mi sentiva o amore o qualche aura di amore, dove mi bisognava
rannicchiarmi ogni momento in me stesso, fatto sensibilissimo oltre ogni mio
costume, a qualunque piccolezza e bassezza e rozzezza sia di fatti sia di
parole, sia morale sia fisica, sia anche solamente filologica, come motti
insulsi, ciarle insipide, scherzi grossolani, maniere ruvide e cento cose tali.
Io non
ho mai sentito tanto di vivere quanto amando, benchè tutto il resto del mondo
fosse per me come morto. L’amore è la vita e il principio vivificante della
natura, come l’odio il principio distruggente e mortale. Le cose son fatte per
amarsi scambievolmente, e la vita nasce da questo. Odiandosi, benchè molti odi
sono anche naturali, ne nasce l’effetto contrario, cioè distruzioni
scambievoli, e anche rodimento e consumazione interna dell’odiatore.
Quella
miserabile lussuria di epiteti, sinonimi, riempiture, chevilles, ec. che forma
il comunissimo orpello de’ nostri classici cinquecentisti (e credo anche del
Poliziano) però non paragonabili ai latini ma più ai greci quanto allo stile,
non si trova o più rara assai in Dante e nel Petrarca dove anzi trovi una
misuratezza infinita di parole e castigatezza di ornati e significazione
conveniente e opportunità di tutte le voci ec. come [60] in quello del
Petrarca messo dall’Alfieri avanti alla sua Virginia: Virginia appresso al fero
padre armato Di disdegno di ferro e di pietate. Trionfo Castità. Così anche le
rime del Petrarca sono molto più spontanee, e con ciò tutto quello che dipende
nel verso dalla necessità della rima che alle volte fa aggiungere intieri versi
che si potrebbono torre di netto ec. come nei cinquecentisti.
Una
bella e notabile similitudine è quella dell’Alamanni nel Girone Canto 17. di un
mastino e un lupo che si scontrino a caso (così dice) per una selva, o ec. e la
loro sorpresa scambievole e timore e rabbia subita e azzuffamento: come pur
quella del Martelli (non mi ricordo quale) di una villanella cercante funghi e
corrente dove vede biancheggiare una foglia secca ec. prendendola per un fungo.
È pure
un bella illusione quella degli anniversari per cui quantunque quel giorno non abbia
niente più che fare col passato che qualunque altro, noi diciamo, come oggi
accadde il tal fatto, come oggi ebbi la tal contentezza, fui tanto sconsolato
ec. e ci par veramente che quelle tali cose che son morte per sempre nè possono
più tornare, tuttavia rivivano e sieno presenti come in ombra, cosa che ci
consola infinitamente allontanandoci l’idea della distruzione e annullamento
che tanto ci ripugna e illudendoci sulla presenza di quelle cose che vorremmo
presenti effettivamente o di cui pur ci piace di ricordarci con qualche
speciale circostanza, come [chi] va sul luogo ove sia accaduto qualche fatto
memorabile, e dice qui è successo, gli pare in certo modo di vederne qualche
cosa di più che altrove non ostante che il luogo sia p.e. mutato affatto da
quel ch’era allora ec. Così negli anniversari. Ed io mi ricordo di aver con
indicibile affetto aspettato e notato e scorso come sacro il giorno della
settimana e poi del mese e poi dell’anno rispondente a quello dov’io provai per
la prima volta un tocco di una carissima passione. Ragionevolezza benchè
illusoria ma dolce delle istituzioni feste ec. civili ed ecclesiastiche in
questo riguardo.
A ciò
che ho detto in altro pensiero intorno all’eloquenza di chi parla di se stesso
si può aggiungere e l’esempio continuo di Cicerone che piglia nuove forze ogni
volta che parla di se come fa tuttora, e quello di Lorenzino de’ Medici nella
sua Apologia che Giordani crede il più gran pezzo d’eloquenza italiana e non
vinto da nessuno [61] straniero. Ora questo è un’Apologia di se stesso.
Ed è mirabile com’egli che scriveva per se e non poteva andar dietro alle
sofisticherie, abbia trasportata come un Atlante l’eloquenza greca e latina
tutta nel suo scritto dove la vedete viva e tal quale, e tuttavia vi par nativa
e non punto traslatizia con una disinvoltura negli artifizi più fini dell’eloquenza
insegnati e praticati ugualmente dagli antichi, una padronanza negligenza ec.
così nello stile e condotta ordine ec. interno, come nell’esterno, cioè la
lingua ec. inaffettatissima e tutta italiana nella costruzione ec. quando lo
stile e la composizione e i modi anche particolari e tutto è latino e greco. E
ciò mentre gli altri miserabili cinquecentisti volendo seguire la stessa
eloquenza e maestri ec. come il Casa, facevano quelle miserie di composizione
di stile di lingua affettatissima e più latina che italiana. Onde i due soli
eloquenti del cinquecento sono Lorenzino qui e il Tasso qua e là per tutte le
sue opere che ambedue parlano sempre di se e il Tasso più dov’è più eloquente e
bello e nobile ec. cioè nelle lettere che sono il suo meglio. La migliore
orazione di Demostene è quella per la corona.
Gli
ardiri rispetto a certi modi epiteti frasi metafore, tanto commendati in poesia
e anche nel resto della letteratura e tanto usati da Orazio non sono bene
spesso altro che un bell’uso di quel vago e in certo modo quanto alla
costruzione, irragionevole, che tanto è necessario al poeta. Come in Orazio
dove chiama mano di bronzo quella della necessità (ode alla fortuna) ch’è un’idea
chiara, ma espressa vagamente (errantemente) così tirando l’epiteto come a caso
a quello di cui gli avvien di parlare senza badare se gli convenga bene cioè se
le due idee che gli si affacciano l’una sostantiva e l’altra di qualità ossia
aggettiva si possano così subito mettere insieme, come chi chiama duro il vento perchè difficilmente si rompe la sua piena quando se gli va incontro
ec.
[62] Quel tanto trasportar parole greche
di netto in latino che fu di moda ai buoni secoli del Lazio (anche appresso i più
antichi latini scrittori, come dal francese parimente assai i nostri antichi
italiani) dovea pur produrre l’istesso senso che produce ora in noi la moda di
usar parole francesi in lingua italiana moda tanto antica fra noi quanto
appresso i latini cioè cominciata coi primi nostri scrittori, ma ora tornata in
voga come ai tempi d’Orazio e massimamente di Seneca Plinio ec. dove pare (e v.
quello che dice Seneca della voce, analogia) che fosse considerata come una
barbarie siccome presentemente, quantunque avesse per se tanti esempi antichi,
come fra noi anche di parole ora risibili p.e. frappare per battere, vengianza
nell’Alamanni Girone più volte e senza necessità di rima, e parecchie altre di
questo andare nello stesso poema ec. Se non che forse allora come adesso sarà
cresciuto quel gusto e divenuto senza giudizio e diffusosi alle forme ec. e
divenuto nocevole al genio nativo della lingua. V. p.312.
Si suol
dire che leggendo certi autori semplici piani spontanei fluidi facili
disinvolti naturali ec. pare a tutti di saper far così che poi alla prova si
vede come sia falso. Ma leggendo Senofonte par proprio che tutti scrivano così
e che non si possa nè sappia scrivere altrimenti, se non quando si passa da lui
a un altro scrittore o da un altro scrittore alla lettura di esso. Perchè gli
altri scrittori si capisce che son semplici, in Senofonte non si scorge neppur
ciò.
Nella
gran battaglia dell’Isso, Dario collocò i soldati greci mercenari nella fronte
della battaglia, (Arriano l.2. c.8. sez.9. Curzio l.3. c.9. sez.2.) Alessandro
i suoi mercenari greci proprio nella coda, (Arriano c.9. sez.5.) Curiosa e
notabilissima differenza e da pronosticare da questo solo l’esito della
battaglia. Perchè era chiaro che tutta la confidenza dei Persiani stava in quei
30m. greci, e pure eran greci anche i mercenari d’Alessandro (Arriano c.9.
sez.7.) ed egli li poneva alla coda. Quindi è chiaro ch’egli confidava più nel
resto che in questi, e quello che era il più forte dell’esercito Persiano era
il più debole del Macedone. E Dario si fidava più del valore dei mercenari che
di coloro che combattevano per la loro patria e avea ragione: Alessandro avendo
gli stessi mercenari [63] sapeva che sarebbero stati più valorosi gli
altri che combattevano per l’onor loro e di lui e la vendetta della patria ed
avea somma ragione. E infatti la propria falange Macedone venuta alle mani essa
coi 30m. mercenari, combatterono ma furon vinti. E però da questa sola
diversità delle due ordinanze da cui si poteva arguire l’infinita differenza
fra gli animi de’ due eserciti, era da congetturare quello che avvenne.
Della
distinzione del ridicolo in quello che consiste in cose e quello che in parole,
data da me in altro pensiero vedi il Costa della elocuzione p.70. e segg.
Una
similitudine nuova può esser quella dell’agricoltore che nel mentre che miete
ed ha i fasci sparsi pel campo, vede oscurarsi il tempo ed una grandine
terribile rapirgli irreparabilmente il grano di sotto la falce: ed egli quivi
tutto accinto a raccoglierlo, se lo vede come strappar di mano senza poter
contrastare.
La
Commedia allora principalmente è utile quando fa conoscere il mondo, i suoi
pericoli, vizi, vanità, seduzioni, tradimenti, illusioni, ec. ai giovani alle
giovanette ec. giacchè ai vecchi che già lo conoscono non serve gran cosa, e
quanto alle massime di morale e gli esempi dei tristi puniti, delle virtù, dei
buoni premiati ec. sono miserabili cose e della cui utilità, se non alquanto
nel basso volgo, non si può disputare in buona fede, che certo nessun giovane o
persona qualunque di un certo mondo e in somma civile, è tornata dalla commedia
più virtuosa per le prediche o gli esempi morali che ci ha sentite e vedute,
bensì è facile che sia (almeno in parte) disingannata dallo svelamento di tante
trame che si tendono alla povera gioventù, e dalla semplice imitazione e
rappresentazione di quello che succede nel mondo e che la gioventù ignora e
crede molto diverso, come appunto servono le storie più che tanti altri libri,
colla differenza che la commedia mostra la cosa più al vivo e al naturale e la
mette sotto gli occhi in luogo di narrarla, ond’è più persuasiva. Diciamo in
proporzione lo stesso degli altri generi di dramma.
Che bel
tempo era quello nel quale ogni cosa era viva secondo l’immaginazione umana e
viva umanamente cioè abitata o formata di esseri [64] uguali a noi,
quando nei boschi desertissimi si giudicava per certo che abitassero le belle
Amadriadi e i fauni e i silvani e Pane ec. ed entrandoci e vedendoci tutto
solitudine pur credevi tutto abitato e così de’ fonti abitati dalle Naiadi ec.
e stringendoti un albero al seno te lo sentivi quasi palpitare fra le mani
credendolo un uomo o donna come Ciparisso ec. e così de’ fiori ec. come appunto
i fanciulli.
Quello
che ho detto p.32. di questi pensieri della tartaruga si potrà forse dire anche
del Pigro della cui vita bisogna vedere presso i naturalisti se sia lunga.
Molti
sono che dalla lettura de’ romanzi libri sentimentali ec. o acquistano una
falsa sensibilità non avendone, o corrompono quella vera che avevano. Io sempre
nemico mortalissimo dell’affettazione massimamente in tutto quello che spetta
agli effetti dell’animo e del cuore mi sono ben guardato dal contrarre questa
sorta d’infermità, e ho sempre cercato di lasciar la natura al tutto libera e
spontanea operatrice ec. A ogni modo mi sono avveduto che la lettura de’ libri
non ha veramente prodotto in me nè affetti o sentimenti che non avessi, nè
anche verun effetto di questi, che senza esse letture non avesse dovuto nascer
da se: ma pure gli ha accelerati, e fatti sviluppare più presto, in somma
sapendo io dove quel tale affetto moto sentimento ch’io provava, doveva andare
a finire, quantunque lasciassi intieramente fare alla natura, nondimeno
trovando la strada come aperta, correvo per quella più speditamente.
Per esempio
nell’amore la disperazione mi portava più volte a desiderar vivamente di
uccidermi: mi ci avrebbe portato senza dubbio da se, ed io sentivo che quel
desiderio veniva dal cuore ed era nativo e mio proprio non tolto in prestito,
ma egualmente mi parea di sentire che quello mi sorgea così tosto perchè dalla
lettura recente del Verter, sapevo che quel genere di amore ec. finiva così, in
somma la disperazione mi portava là, ma s’io fossi stato nuovo in queste cose,
non mi sarebbe venuto in mente quel desiderio così presto, dovendolo io come
inventare, laddove (non ostante ch’io fuggissi quanto mai si può dire ogni
imitazione ec.) me lo trovava già inventato.
A quel
pensiero dell’Algarotti che è nel t.8. delle sue Op. Cremona Manini 1778-1784.
p.96. si può aggiungere il kalokŒgaJow dei greci ch’è la [65] parola corrispondente dov’è notabile l’indole
di quella gentilissima e amabilissima nazione che un uomo onesto e probo
(quantunque non fosse bello, giacchè questo nome come il suo astratto kalokŒgaJÛa si usurpava per significare la sola perfetta probità e integrità in
qualunque si trovasse) lo chiamava buono e bello; tanto facea conto della
bellezza, che non volea scompagnar l’elogio e l’indicazione della virtù da
quella della beltà e ciò costantemente e per proprietà di lingua in maniera che
si dava questo titolo anche a chi fosse tutt’altro che bello. Popolo amante del
bello e dilicato e sensibile, conoscitore di quanto possa l’esterno e quello
che cade sotto i sensi per ornare l’interno, e quanto sia sublime l’idea della
bellezza che non dovrebbe mai essere scompagnata dalla virtù. Parimente si può
aggiungere la parola corrispondente latina frugi, che viene a dire, utile dimostrante la qualità dell’antico popolo romano dove un uomo tanto si stimava
quanto giovava al comune, ed era obbligo e costume dei buoni il non vivere per
se ma per la repubblica, onde per indicare un uomo di garbo, un uomo buono, si
considerava la sua qualità relativa al ben pubblico, cioè in genere la sua
utilità e quello che si poteva far di lui, onde lo chiamavano, frugi,
uomo da profitto, da cavarne costrutto.
Diceva
una volta mia madre a Pietrino che piangeva per una cannuccia gittatagli per la
finestra da Luigi: non piangere non piangere che a ogni modo ce l’avrei gittata
io. E quegli si consolava perchè anche in altro caso l’avrebbe perduta.
Osservazioni intorno a questo effetto comunissimo negli uomini, e a quell’altro
suo affine, cioè che noi ci consoliamo e ci diamo pace quando ci persuadiamo
che quel bene non era in nostra balìa d’ottenerlo, nè quel male di schivarlo, e
però cerchiamo di persuadercene, e non potendo, siamo disperati, quantunque il
male in tutti i modi si rimanga lo stesso. V. p.188. V. a questo proposito il
Manuale di Epitteto.
[66] Io mi trovava orribilmente annoiato
della vita e in grandissimo desiderio di uccidermi, e sentii non so quale
indizio di male che mi fece temere in quel momento in cui io desiderava di
morire: e immediatamente mi posi in apprensione e ansietà per quel timore. Non
ho mai con più forza sentita la discordanza assoluta degli elementi de’ quali è
formata la presente condizione umana forzata a temere per la sua vita e a
proccurare in tutti i modi di conservarla, proprio allora che l’è più grave, e
che facilmente si risolverebbe a privarsene di sua volontà (ma non per forza d’altre
cagioni). E vidi come sia vero ed evidente che (se non vogliamo supporre la
natura tanto savia e coerente in tutto il resto, che l’analogia è uno de’
fondamenti della filosofia moderna e anche della stessa nostra cognizione e
discorso, affatto pazza e contraddittoria nella sua principale opera) l’uomo
non doveva per nessun conto accorgersi della sua assoluta e necessaria
infelicità in questa vita, ma solamente delle accidentali (come i fanciulli e
le bestie): e l’essersene accorto è contro natura, ripugna ai suoi principii
costituenti comuni anche a tutti gli altri esseri (come dire l’amor della
vita), e turba l’ordine delle cose (poichè spinge infatti al suicidio la cosa
più contro natura che si possa immaginare).
Se tu
hai un nemico mortale nella tal città e vedi che v’è sopra un temporale, ti
passa pur per la mente la speranza ch’egli ne possa restare ucciso? Or come
dunque ti spaventi se quel temporale viene sopra di te, quando la probabilità
ch’egli uccida è tanto piccola che tu non ci sai neppur fondare quella cosa che
ha pur bisogno di sì poco fondamento per sorgere in noi, dico la speranza? Lo
stesso intendo dire di cento altri pericoli, i quali se in vece fossero
probabilità di bene, ci parrebbe ridicolo il porci per esse in nessuna
speranza, e pure ci poniamo per quei pericoli in timore. Tant’è: bisogna bene
che per quanto la speranza sia facile a nascere, e insussistente, il timore lo
sia di più. Ma questa riflessione mi pare molto atta a temperarlo. Il timore è
dunque più fecondo d’illusioni che la speranza.
Di un
calcolatore che ad ogni cosa che udiva si metteva a computare, disse un tale:
Gli altri fanno le cose, ed egli le conta.
[67] Qualunque domestico entra nella mia
famiglia non n’esce mai finchè non muore, come potete sentire da quelli che ci
sono stati, diceva un padrone di casa al nuovo suo cuoco, dopo che due
altri se n’erano licenziati spontaneamente.
Nelle
favole del Pignotti (e forse in altre ancora) per la più parte, è svanito il
fine della favola, ch’è l’istruire i fanciulli ec. col mezzo del dolce, della
similitudine ec. e non si conserva nemmeno in apparenza (come ne’ poemi
didascalici), giacchè sono dirette a significar certi vizi del gran mondo,
certe massime di politica, certe fine qualità del carattere umano, che non
giova punto nè è possibile ai fanciulli di conoscere e comprendere: come p.e.
quella dell’asino del cavallo e del bue. Piuttosto quelle favole dalla loro
prima istituzione Esopiana si son ridotte a satirette non inurbane, o a meri
giuochi d’ingegno, cioè similitudini o novellette piacevoli, e alquanto
istruttive per gli uomini maturi, come i contes moraux di Marmontel, e le altre
opere di questo genere, eccetto che qui si parla di animali, piante ec. ec.
Notano
(v. Roberti favola 62. nota) che le femmine degli uccelli generalmente son meno
belle dei maschi e se ne fanno maraviglia: e ciò perchè nell’uomo pare il
contrario. Poca riflessione. Noi siamo uomini e la femmina ci par più bella del
maschio, alle donne pare il contrario, agli uccelli maschi certo par più bella
la femmina, e alle femmine l’opposto. Che se ci fosse un altro animale
ragionevole che come noi giudichiamo degli uccelli, così potesse giudicare
della specie umana, non è dubbio che per perfezione vistosità ec. rispettiva di
forme ec. ec. darebbe la preferenza al maschio, e chiamerebbe più bello l’uomo che la donna, che da noi tuttavia si chiama il bel sesso.
Moltissime
volte anzi la più parte si prende l’amor della gloria per l’amor della patria.
P.e. si attribuisce a questo la costanza dei greci alle termopile, il fatto d’Attilio
Regolo (se è vero) ec. ec. le quali cose furono puri effetti dell’amor della
gloria, cioè dell’amor proprio immediato ed evidente, non trasformato ec. Il
gran mobile degli antichi popoli era la gloria che si prometteva a chi si
sacrificava per la patria, e la vergogna a chi ricusava questo sacrifizio, e
però come i maomettani si espongono alla morte, anzi la [68] cercano per
la speranza del paradiso che gliene viene secondo la loro opinione, così gli
antichi per la speranza, anzi certezza della gloria cercavano la morte i
patimenti ec. ed è evidente che così facendo erano spinti da amor di se stessi
e non della patria, dal vedere che alle volte cercavano di morire anche senza
necessità nè utile, (come puoi vedere nei dettagli che dà il Barthélemy sulle
Termopile) e da quegli Spartani accusati dall’opinione pubblica d’aver fuggito
la morte alle Termopile che si uccisero da se, non per la patria ma per la
vergogna. Ed esaminando bene si vedrà che l’amor puramente della patria, anche
presso gli antichi era un mobile molto più raro che non si crede. Piuttosto
quello della libertà, l’odio di quelle tali nazioni nemiche ec. affetti che poi
si comprendono generalmente sotto il nome di amor di patria, nome che bisogna
ben intendere, perchè il sacrifizio precisamente per altrui non è possibile all’uomo.
Guardate
di dietro due, tre, o più persone delle quali una parli. Voi discernete subito
qual è quella che parla, ma se non le vedrete, con tutto che siate alla stessa
distanza, non la discernerete punto, quando non la conosciate alla voce o per
altra circostanza ec. E questo è accaduto a me di non discernerla non
vedendola, e discernerla poi al primo sguardo veduta di dietro. Tanto è vero
che il parlare anche delle persone più modeste (com’era questa) è sempre
accompagnato dai moti del corpo. V. p.206.
Il gran
giudizio e gusto e bella immaginazione dei greci si dimostra fra mille altre
cose anche nell’aver fatto vecchio il barcaiuolo dell’inferno (cruda deo viridisque
senectus, dice Virgilio divinamente) cosa che conviene sommamente alla
ruvidezza e squallore di quel luogo. E nota che tutti gli altri uffizi
attribuiti dalla mitologia alle divinità, sono attribuiti a Dei giovani. Qui
solamente, perchè si trattava dell’inferno, l’uffizio è dato ad un vecchio.
Il
nascere istesso dell’uomo cioè il cominciamento della sua vita, è un pericolo
della vita, come apparisce dal gran numero di coloro per cui la nascita è
cagione di morte, non reggendo al travaglio e ai disagi che il bambino prova
nel nascere. E nota [69] ch’io credo che esaminando si troverà che fra
le bestie un molto minor numero proporzionatamente perisce in questo pericolo,
colpa probabilmente della natura umana guasta e indebolita dall’incivilimento.
Invenies allum si te hic fastidit Alexis. Quest’è uno sbaglio formale. Nessun
vero amante crede di poter trovare un altro oggetto d’amore che lo compensi.
Oh
infinita vanità del vero!
Quanto è
più dolce l’odio che la indifferenza verso alcuno! Perciò la natura intenta a
proccurare la nostra felicità individuale nello stato primitivo, ci avea
lasciata l’indifferenza verso pochissime cose, come vediamo nei fanciulli
sempre proclivi a odiare o ad amare, temere ec.
A quello
che ho detto in altro pensiero si può aggiungere che gli stessi fiorentini
pronunziano effe elle emme esse ec. e non effi elli ec. tanto è chiaro che la
lingua umana dove manca l’appoggio della vocale, cade naturalmente in un’e.
Beati
voi se le miserie vostre / Non sapete. Detto p.e. a qualche animale, alle api
ec.
Dev’esser
cosa già notata che come l’allegrezza ci porta a communicarci cogli altri (onde
un uomo allegro diventa loquace quantunque per ordinario sia taciturno, e s’accosta
facilmente a persone che in altro tempo avrebbe o schivate, o non facilmente
trattate ec.) così la tristezza a fuggire il consorzio altrui e rannicchiarci
in noi stessi co’ nostri pensieri e col nostro dolore. Ma io osservo che questa
tendenza al dilatamento nell’allegrezza, e al ristringimento nella tristezza,
si trova anche negli atti dell’uomo occupato dall’[70] uno di questi
affetti, e come nell’allegrezza egli passegia muove e allarga le braccia le
gambe, dimena la vita, e in certo modo si dilata col trasportarsi velocemente
qua e là, come cercando una certa ampiezza; così nella tristezza si rannicchia,
piega la testa, serra le braccia incrociate contro il petto, cammina lento, e
schiva ogni moto vivace e per così dire, largo. Ed io mi ricordo, (e l’osservai
in quell’istesso momento) che stando in alcuni pensieri o lieti o indifferenti,
mentre sedeva, al sopravvenirmi di un pensier tristo, immediatamente strinsi l’una
contro l’altra le ginocchia che erano abbandonate e in distanza, e piegai sul
petto il mento ch’era elevato.
La
semplicità del Petrarca benchè naturalissima come quella dei greci, tuttavia
differisce da quella in un modo che si sente ma non si può spiegare. E forse
ciò consiste in una maggior familiarità, e più vicina alla prosa, di cui il
Petrarca veste mirabilmente i suoi versi così nobilissimi come sono. I greci
poeti forse sono un poco più eleganti, come Omero che cercava in ogni modo un
linguaggio diverso dal familiare come apparisce da’ suoi continui epiteti ec.
quantunque sia rimasto semplicissimo. Forse anche la lingua italiana, essendo
la nostra fa che noi sentiamo questa familiarità dello stile più che ne’ greci,
ma parmi pure che vi sia una qualche differenza reale.
Non v’ha
forse cosa tanto conducente al suicidio quanto il disprezzo di se medesimo.
Esempio di quel mio amico [71] che andò a Roma deliberato di gittarsi
nel Tevere perchè sentiva dirsi ch’era un da nulla. Esempio mio stimolatissimo
ad espormi a quanti pericoli potessi e anche uccidermi, la prima volta che mi
venni in disprezzo. Effetto dell’amor proprio che preferisce la morte alla
cognizione del proprio niente, ec. onde quanto più uno sarà egoista tanto più
fortemente e costantemente sarà spinto in questo caso ad uccidersi. E infatti l’amor
della vita è l’amore del proprio bene; ora essa non parendo più un bene, ec.
ec.
A
un cavallo turco. Oh quanto tu sei meglio degli uomini del tuo paese.
Colle
persone colle quali penso di poter convenire, non amo di parlare in compagnia,
parte perchè i circostanti non conoscendomi bene (giacchè io non soglio farmi
conoscer da tutti) darebbero di me a queste persone sia direttamente sia
indirettamente una idea falsa; parte perchè io stesso per non entrare in
dispute ch’io sfuggo a più potere con quelli che hanno diversi principii, e per
non obbligare quella stessa tal persona ch’io stimassi, ad entrarvi,
dissimulerei necessariamente, e così cercando d’ingannar gli altri, ingannerei
anche colui, il quale mi crederebbe uno di quei tanti coi quali egli non può
convenire.
Io credo
che la moltitudine assoluta di ciascuna specie di animali sia in ragion diretta
della loro piccolezza. Senza dubbio una sola pianticella in una campagna
contiene bene spesso più formiche assai che non v’ha uomini in tutto quel
campo. Così discorriamola. Vedi i naturalisti, e se questa osservazione sia
stata fatta da nessuno di loro. Osservo anche la moltitudine degli uccelli i
cui stormi sono innumerabili, e nondimeno son vinti dalla folla degli animali
più [72] piccoli che si ritrova in questo o in quel luogo secondo le
circostanze rispettive.
Anche il
delitto bene spesso è un eroismo, cioè p.e. quando il farlo torna in danno o
pericolo, e nondimeno si vuol fare per soddisfare quella tal passione ec. tanto
più eroismo quanto che bisogna superare tutta la forza della natura reclamante,
e dell’abitudine (se si tratta p.e. di un giovane, di un innocente ec.) ec. E
però è un eroismo anche senza il danno o il pericolo tutte le volte che è
commesso da persona non solita a commetterlo, costando sempre uno sforzo e una
vittoria di se stesso, nel che consiste l’eroismo. Quindi da un delitto di
questa sorta si può sempre argomentar bene o almeno alquanto straordinariamente
di una persona. In somma ogni sacrifizio di cosa cara ogni sacrifizio difficile
è un eroismo, anche quello della virtù, e dei sentimenti più sacri, quando
questo sacrifizio ancora costa.
Anche
il dolore che nasce dalla noia e dal sentimento della vanità delle cose è più
tollerabile assai che la stessa noia.
Il
sentimento della vendetta è così grato che spesso si desidera d’essere
ingiuriato per potersi vendicare, e non dico già solamente da un nemico
abituale, ma da un indifferente, o anche (massime in certi momenti d’umor nero)
da un amico.
Tutto è
nulla al mondo, anche la mia disperazione, della quale ogni uomo anche savio,
ma più tranquillo, ed io stesso certamente in un’ora più quieta conoscerò, la
vanità e l’irragionevolezza e l’immaginario. Misero me, è vano, è un nulla
anche questo mio dolore, che in un certo tempo passerà e s’annullerà,
lasciandomi in un vôto universale, e in un’indolenza terribile che mi farà incapace
anche di dolermi.
[73] Io non ho mai provato invidia nelle
cose in cui mi son creduto abile, come nella letteratura, dove anzi sono stato
proclivissimo a lodare. L’ho provata posso dire per la prima volta (e verso una
persona a me prossimissima) quando ho desiderato di valer qualche cosa in un
genere in cui capiva d’esser debolissimo. Ma bisogna che mi renda giustizia
confessando che questa invidia era molto indistinta e non al tutto e per tutto
vile, e contraria al mio carattere. Tuttavia mi dispiaceva assolutamente di
sentire le fortune di quella tal persona in quel tal genere, e raccontandomele
essa, la trattava da illusa, ec.
La
cagione per cui il bene inaspettato e casuale, c’è più grato dello sperato, è
che questo patisce un confronto cioè quello del bene immaginato prima, e perchè
il bene immaginato è maggiore a cento doppi del reale, perciò è necessario che
sfiguri e paia quasi un nulla. Al contrario dell’inaspettato che non perde
nulla del suo qualunque valore reale per la forza del confronto troppo
disuguale.
L’ame est si mal à l’aise dans ce lieu, (dice la Staël
delle catacombe liv.5 ch.2. de la Corinne) qu’il n’en peut résulter aucun bien
pour elle. L’homme est une partie de la création, il faut qu’il trouve son
harmonie morale dans l’ensemble de l’univers, dans l’ordre habituel [74] de
la destinée; et de certaines exceptions violentes et redoutables peuvent
étonner la pensée, mais effraient tellement l’imagination, que la disposition
habituelle de l’ame ne saurait y gagner. Queste parole sono una solennissima condanna degli
orrori e dell’eccessivo terribile tanto caro ai romantici, dal quale l’immaginazione
e il sentimento in vece d’essere scosso è oppresso e schiacciato, e non trova
altro partito a prendere che la fuga, cioè chiuder gli occhi della fantasia e
schivar quell’immagine che tu gli presenti.
Nell’autunno
par che il sole e gli oggetti sieno d’un altro colore, le nubi d’un’altra
forma, l’aria d’un altro sapore. Sembra assolutamente che tutta la natura abbia
un tuono un sembiante tutto proprio di questa stagione più distinto e spiccato
che nelle altre anche negli oggetti che non cangiano gran cosa nella sostanza,
e parlo ora riguardo a un certo aspetto superficiale e in parità di oggetti,
circostanze ec. e per rispetto a certe minuzie e non alle cose più essenziali
giacchè in queste è manifesto che la faccia dell’inverno è più marcata e
distinta dalle altre che quella dell’autunno ec.
Una
delle cagioni del gran contrasto delle qualità degli abitanti del mezzogiorno
notata dalla Staël, Corinne liv.6. ch.2. p.246. troisieme édition 1812., (oltre
quella, qu’ils ne perdent aucune force de l’ame dans la société, com’ella dice
ivi, onde la natura anche per questo capo resta più varia, e non così obbligata
e avvezzata alla continua uniformità, come succede per lo spirito di società e
d’eccessivo incivilimento in Francia) è che il clima meridionale essendo [75]
il più temperato, e la natura quivi (come dice la stessa più volte) in
grande armonia, essa si trova più spedita, più dégagée, più sviluppata, onde
siccome le circostanze della vita son diversissime, così trovandosi i caratteri
meridionali per la detta cagione pieghevolissimi, e suscettibili d’ogni
impressione, ne segue il contrasto delle qualità che si dimostrano nelle
contrarie circostanze, e il rapido passaggio ec. Laddove negli altri climi la
natura trovandosi meno mobile più inceppata e dura, il violento difficilmente
mostra pacatezza, e l’indolente non divien quasi mai attivo, insomma la qualità
dominante, domina più assolutamente e tirannicamente di quello che faccia nel
mezzogiorno, dove non perciò si dee credere che manchino le qualità dominanti
nel tale e tale individuo, ma che in proporzione lascino più luogo alle altre
qualità, alla varietà loro ec.
Il
sentimento che si prova alla vista di una campagna o di qualunque altra cosa v’ispiri
idee e pensieri vaghi e indefiniti quantunque dilettosissimo, è pur come un
diletto che non si può afferrare, e può paragonarsi a quello di chi corra
dietro a una farfalla bella e dipinta senza poterla cogliere: e perciò lascia
sempre nell’anima un gran desiderio: pur questo è il sommo de’ nostri diletti,
e tutto quello ch’è determinato e certo è molto più lungi dall’appagarci, di
questo che per la sua incertezza non ci può mai appagare.
[76] La somma felicità possibile dell’uomo
in questo mondo, è quando egli vive quietamente nel suo stato con una speranza
riposata e certa di un avvenire molto migliore, che per esser certa, e lo stato
in cui vive, buono, non lo inquieti e non lo turbi coll’impazienza di goder di
questo immaginato bellissimo futuro. Questo divino stato l’ho provato io di 16
e 17 anni per alcuni mesi ad intervalli, trovandomi quietamente occupato negli studi senz’altri disturbi, e colla certa e tranquilla speranza di un
lietissimo avvenire. E non lo proverò mai più, perchè questa tale speranza che sola
può render l’uomo contento del presente, non può cadere se non in un
giovane di quella tale età, o almeno, esperienza.
L’incivilimento
ha posto in uso le fatiche fine ec. che consumano e logorano ed estinguono le
facoltà umane, come la memoria, la vista, le forze in genere ec. le quali non
erano richieste dalla natura, e tolte quelle che le conservano e le accrescono,
come quelle dell’agricoltore del cacciatore ec. e della vita primitiva, le
quali erano volute dalla natura e rese necessarie alla detta vita.
Un
corollario del pensiero posto qui sopra possono essere delle osservazioni sulla
vita degli anacoreti senza disturbi e colla speranza quieta e non impaziente
del paradiso.
L’espressione
del dolore antico, p.e. nel Laocoonte, nel gruppo di Niobe, nelle descrizioni
di Omero ec. doveva essere per necessità differente da quella del dolor
moderno. Quello era un dolore senza medicina come ne ha il nostro, non
sopravvenivano le sventure agli antichi come necessariamente dovute alla nostra
natura, ed anche come un nulla in questa misera vita, ma [77] come
impedimenti e contrasti a quella felicità che agli antichi non pareva un sogno,
come a noi pare, (ed effettivamente non era tale per essi, certamente
speravano, mentre noi disperiamo, di poterla conseguire) come mali evitabili e
non evitati. Perciò la vendetta del cielo, le ingiustizie degli uomini, i
danni, le calamità, le malattie, le ingiurie della fortuna, pareano mali tutti
propri di quello a cui sopravvenivano. (infatti il disgraziato al contrario di
adesso solea per la superstizione che si mescolava ai sentimenti e alle
opinioni naturali, esser creduto uno scellerato e in odio agli Dei, e destar
più l’odio che la compassione) Quindi il dolor loro era disperato, come suol
essere in natura, e come ora nei barbari e nelle genti di campagna, senza il
conforto della sensibilità, senza la rassegnazion dolce alle sventure da noi,
non da loro, conosciute inevitabili, non poteano conoscere il piacer del
dolore, nè l’affanno di una madre, perduti i suoi figli, come Niobe, era
mescolato di nessuna amara e dolce tenerezza di se stesso ec. ma intieramente
disperato. Somma differenza tra il dolore antico e il moderno per cui con
ragione si raccomanda al poeta artista ec. moderno di trattar soggetti moderni,
non potendo a meno trattando soggetti antichi di cadere in una di queste due, o
violare il vero, dipingendo i fatti antichi con prestare ai suoi personaggi
sentimenti e affetti moderni, o non interessare nè farsi [78] intendere
dai moderni col far sentire e parlare quei personaggi all’antica. Se non che l’offendere
il vero, nel primo caso non mi par così da schivare, purchè si salvi il
verosimile, divenendo cosa da puro erudito, quando l’effetto di quella mescolanza
è buono, il rilevare che gli antichi non avrebbero potuto provare quei
sentimenti, come io soglio anche dire dei vestimenti e delle attitudini nella
pittura, ec. dove purchè l’offesa del vero non salti agli occhi, vale a dire si
salvi il verisimile, sarà sempre meglio farsi intendere e colpire i moderni,
che assoggettarsi ad una miserabile esattezza erudita che non farebbe nessuno
effetto. Quindi non condanno punto anzi lodo p.e. Racine che avendo scelto
soggetti antichi (che colla loro natura non erano incompatibili coi sentimenti
moderni, e d’altronde erano per la loro bellezza, tragicità, forza ec.
preferibili ad altri soggetti de’ giorni più bassi) gli ha trattati alla
moderna. La sensibilità era negli antichi in potenza, ma non in atto come in
noi, e però una facoltà naturalissima (v. il mio discorso sui romantici), ma è
cosa provata che le diverse circostanze sviluppano le diverse facoltà naturali
dell’anima, che restano nascose e inoperose mancando quelle tali circostanze,
fisiche, politiche, morali, e soprattutto, nel nostro caso, intellettuali,
giacchè lo sviluppo del sentimento e della melanconia, è venuto soprattutto dal
progresso della filosofia, e della cognizione dell’uomo, e del mondo, e della
vanità delle cose, e della infelicità umana, [79] cognizione che produce
appunto questa infelicità, che in natura non dovevamo mai conoscere. Gli
antichi in cambio di quel sentimento che ora è tutt’uno col malinconico,
avevano altri sentimenti entusiasmi ec. più lieti e felici, ed è una pazzia l’accusare
i loro poeti di non esser sentimentali, e anche il preferire a quei sentimenti
e piaceri loro che erano spiritualissimi anch’essi, e destinati dalla natura
all’uomo non fatto per essere infelice, i sentimenti e le dolcezze nostre,
benchè naturali anch’esse, cioè l’ultima risorsa della natura per contrastare
(com’è suo continuo scopo) alla infelicità prodotta dalla innaturale cognizione
della nostra miseria. La consolazione degli antichi non era nella sventura, per
es. un morto si consolava cogli emblemi della vita, coi giuochi i più energici,
colla lode di avere incontrata una sventura minore o nulla morendo per la
patria, per la gloria, per passioni vive, morendo dirò quasi per la vita. La
consolazione loro anche della morte non era nella morte ma nella vita. V.
p.105. di questi pensieri.
Le altre
arti imitano ed esprimono la natura da cui si trae il sentimento, ma la musica
non imita e non esprime che lo stesso sentimento in persona, ch’ella trae da se
stessa e non dalla natura, e così l’uditore. Ecco perchè la
Staël (Corinne liv.9. ch.2.) dice: De tous les beaux-arts c’est (la musique)
celui qui agit le plus immédiatement sur l’ame. Les autres la dirigent vers
telle ou telle idée, celui-là seul s’adresse à la source intime de l’existence,
et change en entier la disposition intérieure. La [80] parola nella poesia ec. non ha tanta
forza d’esprimere il vago e l’infinito del sentimento se non applicandosi a
degli oggetti, e perciò producendo un’impressione sempre secondaria e meno
immediata, perchè la parola come i segni e le immagini della pittura e scultura
hanno una significazione determinata e finita. L’architettura per questo lato
si accosta un poco più alla musica, ma non può aver tanta subitaneità, ed
immediatezza.
La speme
che rinasce in un col giorno.
Dolor mi
preme del passato, e noia
Del
presente, e terror de l’avvenire.
Si può
osservare che il Cristianesimo, senza perciò fargli nessun torto ha per un
verso effettivamente peggiorato gli uomini. Basta considerare l’effetto che
produce sopra i lettori della storia il carattere dei principi cristiani
scellerati in comparazione degli scellerati pagani, e così dei privati, dei
Patriarchi, Vescovi, e monaci greci (v. Montesquieu Grandeur ec. Amsterd. 1781.
ch.22.) o latini. Le scelleratezze dei secondi non erano per nessun modo in
tanta opposizione coi loro principii. Morto il fanatismo della pietà, e il
primo fervore di una religione che si considera come un’opinione propria, e una
setta e cosa propria, e di cui perciò si è più gelosi (anche per li sacrifizi
che costava il professarla) l’uomo in società ritorna naturalmente malvagio,
colla differenza che quando gli antichi scellerati operavano o secondo i loro
principii, o in opposizione di massime confuse poco note e controverse, i
cristiani operavano contro massime certe stabilite definite, e di cui erano
intimamente persuasi, e l’uomo è sempre tanto più [81] scellerato quanto
più sforzo costa l’esserlo, massimamente contro se stesso, come per contrario
accade della pietà. E infatti da quando il cristianesimo fu corrotto nei cuori,
cioè presso a poco da quando divenne religione imperiale e riconosciuta per
nazionale, e passò in uomini posti in circostanze da esser malvagi, è
incontrastabile che le scelleratezze mutaron faccia e il carattere di Costantino
e degli altri scellerati imperatori cristiani, vescovi ec. è evidentemente più
odioso di quello dei Tiberi dei Caligola ec. e dei Marii e dei Cinna ec. e di
una tempra di scelleraggine tutta nuova e più terribile. E secondo me a questo
cioè al cristianesimo si deve in gran parte attribuire (giacchè il guasto
cristianesimo era una parte di guasto incivilimento) la nuova idea della
scelleratezza dell’età media molto differente e più orribile di quella dell’età
antiche anche più barbare: e questa nuova idea si è mantenuta più o meno sino a
questi ultimi tempi nei quali l’incredulità avendo fatti tanti progressi, il
carattere delle malvagità si è un poco ravvicinato all’antico, se non quanto i
gran progressi e il gran divulgamento dei lumi chiari e determinati della
morale universale molto più tenebrosa presso gli antichi anche più civili, non
lascia tanto campo alla scelleraggine di seguire più placidamente il suo corso.
V. p.710. capoverso 1.
[82] Citerò un luogo delle Notti romane,
non perch’io creda che quel libro si possa prendere per modello di stile, ma
per addurre un esempio che mi cade in acconcio. Ed è quello dove la Vestale
dice che diede disperatamente del capo in una parete, e giacque. La
soppressione del verbo intermedio tra il battere il capo e il giacere, che è il
cadere, produce un effetto sensibilissimo, facendo sentire al lettore tutta la
violenza e come la scossa di quella caduta, per la mancanza di quel verbo, che
par che ti manchi sotto ai piedi, e che tu cada di piombo dalla prima idea nella
seconda che non può esser collegata colla prima se non per quella di mezzo che
ti manca. E queste sono le vere arti di dar virtù ed efficacia allo stile, e di
far quasi provare quello che tu racconti.
Io era
oltremodo annoiato della vita, sull’orlo della vasca del mio giardino, e
guardando l’acqua e curvandomici sopra con un certo fremito, pensava: s’io mi
gittassi qui dentro, immediatamente venuto a galla, mi arrampicherei sopra
quest’orlo, e sforzandomi di uscir fuori dopo aver temuto assai di perdere
questa vita, ritornato illeso, proverei qualche istante di contento per essermi
salvato, e di affetto a questa vita che ora tanto disprezzo, e che allora mi
parrebbe più pregevole. La tradizione intorno al salto di Leucade poteva avere
per fondamento un’osservazione simile a questa.
[83] La cagione per cui trovo nelle
osservazioni di Mad. Di Staël del libro 14. della Corinna anche più intima e
singolare e tutta nuova naturalezza e verità, è (oltre al trovarmi io
presentemente nello stessissimo stato ch’ella descrive) il rappresentare ella
quivi il genio considerante se stesso e non le cose estrinseche nè sublimi, ma
le piccolezze stesse e le qualità che il genio poche volte ravvisa in se, e
forse anche se ne vergogna e non se le confessa (o le crede aliene da se e
provenienti da altre qualità più basse, e perciò se n’affligge) onde con minore
sublime ed astratto, ha maggior verità e profondità familiare in tutto quello
che dice Corinna di se giovanetta.
Quantunque
io mi trovi appunto nella condizione che ho detta qui sopra pur leggendo il
detto libro, ogni volta che madame parla dell’invidia di quegli uomini volgari,
e del desiderio di abbassar gli uomini superiori, e presso loro e presso gli
altri e presso se stessi, non ci trovava la solita certissima e precisa
applicabilità alle mie circostanze. E rifletto che infatti questa invidia, e
questo desiderio non può trovarsi in quei tali piccoli spiriti ch’ella
descrive, perchè non hanno mai considerato il genio e l’entusiasmo come una
superiorità, anzi come una pazzia, come fuoco giovanile, difetto di prudenza,
di esperienza di senno, ec. e si stimano molto più essi, onde non possono
provare invidia, perchè nessuno invidia la follia degli altri, bensì
compassione, o disprezzo, e anche malvolenza, come a persone che non vogliono
pensare come voi, e come credete che si debba pensare. Del resto credono che
ancor esse fatte più mature si ravvedranno, tanto sono lontane dall’invidiarle.
E così precisamente [84] porta l’esperienza che ho fatta e fo. Ben è
vero che se mai si affacciasse loro il dubbio che questi uomini di genio
fossero spiriti superiori, ovvero se sapranno che son tenuti per tali, come
anime basse che sono e amanti della loro quiete ec. faranno ogni sforzo per
deprimerli, e potranno concepirne invidia, ma come di persone di un merito
falso e considerate contro al giusto, e invidia non del loro genio, ma della
stima che ne ottengono, giacchè non solamente non li credono superiori a se, ma
molto al di sotto.
Una
prova in mille di quanto influiscano i sistemi puramente fisici sugl’intellettuali
e metafisici, è quello di Copernico che al pensatore rinnuova interamente l’idea
della natura e dell’uomo concepita e naturale per l’antico sistema detto
tolemaico, rivela una pluralità di mondi mostra l’uomo un essere non unico,
come non è unica la collocazione il moto e il destino della terra, ed apre un
immenso campo di riflessioni, sopra l’infinità delle creature che secondo tutte
le leggi d’analogia debbono abitare gli altri globi in tutto analoghi al
nostro, e quelli anche che saranno benchè non ci appariscano intorno agli altri
soli cioè le stelle, abbassa l’idea dell’uomo, e la sublima, scuopre nuovi
misteri della creazione, del destino della natura, della essenza delle cose,
dell’esser nostro, dell’onnipotenza del creatore, dei fini del creato ec. ec.
Nella
mia somma noia e scoraggimento intiero della vita talvolta riconfortato
alquanto e alleggerito io mi metteva a piangere la sorte umana e la miseria del
mondo. Io rifletteva allora: io piango perchè sono più lieto, e così è che
allora il nulla delle cose pure mi lasciava forza d’addolorarmi, e quando io lo
sentiva maggiormente e ne era pieno, non mi lasciava il vigore di dolermene.
[85] Cum
pietatem funditus amiserint Pi tamen dici nunc maxime reges volunt. Quo res magis labuntur, haerent nomina.
Io era
spaventato nel trovarmi in mezzo al nulla, un nulla io medesimo. Io mi sentiva
come soffocare considerando e sentendo che tutto è nulla, solido nulla.
Prima di
provare la felicità, o vogliamo dire un’apparenza di felicità viva e presente,
noi possiamo alimentarci delle speranze, e se queste son forti e costanti, il
tempo loro è veramente il tempo felice dell’uomo, come nella età fra la
fanciullezza e la giovanezza. Ma provata quella felicità che ho detto, e
perduta, le speranze non bastano più a contentarci, e la infelicità dell’uomo è
stabilita. Oltre che le speranze dopo la trista esperienza fatta sono assai più
difficili, ma in ogni modo la vivezza della felicità provata, non può esser
compensata dalle lusinghe e dai diletti limitati della speranza, e l’uomo in
comparazione di questa piange sempre quello che ha perduto e che ben
difficilmente può tornare, perchè il tempo delle grandi illusioni è finito.
Uomo
colto in piena campagna da una grandine micidiale e da essa ucciso o malmenato
rifugiantesi sotto gli alberi, difendentesi il capo colle mani ec. soggetto di
una similitudine.
Quando
le sensazioni d’entusiasmo ec. che noi proviamo non sono molto profonde, allora
cerchiamo di avere un compagno con cui comunicarle, e ci piace il poterne
discorrere in quel momento, (secondo quella osservazione di Marmontel che
vedendo una bella campagna non siamo contenti se non abbiamo con chi dire: la
belle campagne!) perchè in certo modo speriamo di accrescere [86] il
diletto di quel sentimento e il sentimento medesimo con quello degli altri. Ma
quando l’impressione è profonda accade tutto l’opposto perchè temiamo, e così
è, di scemarla e svaporarla partecipandola, e cavandola dal chiuso delle nostre
anime, per esporla all’aria della conversazione. Oltre ch’ella ci riempie in
modo, che occupando tutta la nostra attenzione, non ci lascia campo di pensare
ad altri, nè modo di esprimerla, volendosi a ciò una certa attenzione che ci
distrarrebbe, quando la distrazione ci è non solamente importuna, ma
impossibile.
Dice la Staël, (Corinne liv.18. ch.4.) parlando de la
statue de Niobé: sans doute dans une semblable situation la figure d’une
véritable mère serait entièrement bouleversée; mais l’idéal des arts conserve
la beauté dans le désespoir; et ce qui touche profondément dans les ouvrages du
génie, ce n’est pas le malheur même, c’est la puissance que l’ame conserve sur
ce malheur. Bellissima
condanna del sistema romantico che per conservare la semplicità e la
naturalezza e fuggire l’affettazione che dai moderni è stata pur troppo
sostituita alla dignità, (facile agli antichi ad unire colla semplicità che ad
essi era sì presente e nota e propria e viva) rinunzia ad ogni nobiltà, così
che le loro opere di genio non hanno punto questa gran nota della loro origine,
ed essendo una pura imitazione del vero, come una statua di cenci con parrucca
e viso di cera ec. colpisce molto meno di quella che insieme colla semplicità e
naturalezza conserva l’ideale del bello, e rende straordinario quello ch’è
comune, cioè mostra ne’ suoi eroi un’anima grande e un’attitudine dignitosa, il
che muove la maraviglia e [87] il sentimento profondo colla forza del
contrasto, mentre nel romantico non potete esser commosso se non come dagli
avvenimenti ordinari della vita, che i romantici esprimono fedelmente, ma senza
dargli nulla di quello straordinario e sublime, che innalza l’immaginazione, e
ispira la meditazione profonda e la intimità e durevolezza del sentimento. E
così ancora si verifica che gli antichi lasciavano a pensare più di quello ch’esprimessero,
e l’impressione delle loro opere era più durevole.
Quando l’uomo
veramente sventurato si accorge e sente profondamente l’impossibilità d’esser
felice, e la somma e certa infelicità dell’uomo, comincia dal divenire
indifferente intorno a se stesso, come persona che non può sperar nulla, nè
perdere e soffrire più di quello ch’ella già preveda e sappia. Ma se la
sventura arriva al colmo l’indifferenza non basta, egli perde quasi affatto l’amor
di se, (ch’era già da questa indifferenza così violato) o piuttosto lo rivolge
in un modo tutto contrario al consueto degli uomini, egli passa ad odiare la
vita l’esistenza e se stesso, egli si abborre come un nemico, e allora è quando
l’aspetto di nuove sventure, o l’idea e l’atto del suicidio gli danno una
terribile e quasi barbara allegrezza, massimamente se egli pervenga ad
uccidersi essendone impedito da altrui; allora è il tempo di quel maligno amaro
e ironico sorriso simile a quello della vendetta eseguita da un uomo crudele
dopo forte lungo e irritato desiderio, il qual sorriso è l’ultima espressione
della estrema disperazione e della somma infelicità. V. Staël
Corinne l.17. c.4. 5me édition Paris, 1812. p.184.185. t.3.
[88] Je vous l’ai dit souvent, la
douleur me tuerait; il y a trop de lutte en moi contre elle; il faut lui céder
pour n’en pas mourir, dice Corinna presso la Staël liv.14. ch.3. t.2. p.361.
dell’edizione citata qui dietro. E da questo venia che gli antichi al carattere dei quali l’autrice ha
voluto ravvicinare quello di Corinna quanto era compatibile coi costumi e la
filosofia moderna di cui l’arricchisce a piena mano, erano vinti dall’infelicità
in modo che esprimevano la loro disperazione cogli atti e le azioni più
terribili, e la sventura li mandava fuori di se stessi, e gli uccideva. Quel se
réposer sur sa douleur, quel piacere perfino provato dai moderni per la stessa
sventura e per la considerazione di essere sventurato, era cosa ignota a quelli
che secondo l’istinto della natura non ancora del tutto alterata, correvano
sempre dritto alla felicità, non come a un fantasma, ma cosa reale, e trovavano
il loro diletto dove la natura primitivamente l’ha posto, cioè nella buona e
non nella cattiva fortuna, la quale quando loro sopravvenniva, la riguardavano
come propria, non come universale e inevitabile. Nè il desiderio della felicità
era in essi temperato e rintuzzato e illanguidito da nessuna considerazione e
da nessuna filosofia. Perciò tanto più formidabile era l’effetto di quanto
impediva loro l’adempimento di questo desiderio.
Les habitans du Midi craignant beaucoup la mort, l’on s’étonne
d’y trouver des institutions qui la rappellent à ce point; mais il est dans la
nature d’aimer à se livrer à l’idée même de ce que l’on redoute. Il y a comme
un enivrement de tristesse qui fait à l’ame le bien de la remplir tout entière. Corinne l.10. ch.1
t.2. p.115. edizione citata qui dietro [89]. A questo proposito si può
notare quella indistinta e pur vera voglia che noi proviamo avendo p.e. in mano
una cosa fetente di sentirne fuggitivamente l’odore. Così se ti abbatti a
passare, poniamo, per un luogo dove si faccia giustizia, tu senti ribrezzo di
quella esecuzione, e pure io metto pegno che non ti puoi tenere che non alzi
gli occhi per vederla così di sfuggita, e poi rivolgerli immediatamente
altrove. V. a tal proposito un luogo notabile di Platone, Opp. Ed. Astii, t.4.
p.236. lin.8-16. E così di ogni cosa che ci faccia ribrezzo, così se tu hai
corso un pericolo che ti spaventi, ti si stringe il cuore in pensarci, non hai
forza di fermarti in quel pensiero di quel momento di quel caso di quella
vicinanza della morte ec. ma neanche hai forza di cacciarlo, anzi bisogna pur
che tra il volere e il non volere ci lasci andare un’occhiata. Similmente se ti
si affaccia qualche pensiero che ti addolori, la ricordanza di qualche cosa che
ti faccia vergognare teco stesso ec. La ragione di questo effetto non è certo
quell’inebbriamento che dice la Staël, e nemmeno la curiosità come può vedere
chiunque ci faccia un poco di considerazione. Piuttosto direi che quell’ignoto
ci fa più pena che il noto, e siccome quell’oggetto ci spaventa o ci
abbrividisce o ci attrista, non sappiamo lasciarlo stare così intatto, e anche
con ribrezzo, abbiamo pure una certa voglia di dargli una tal quale squadrata
che ce lo faccia conoscere alquanto. Forse anche, e così credo, proviene dall’amore
dello straordinario, e odio naturale della monotonia e della noia ch’è ingenito
in tutti gli uomini, e offrendosi un oggetto che rompe questa monotonia, ed
esce dell’ordine comune, quantunque ci paia [90] più grave assai della
noia, di cui forse anche, in quel punto non ci accorgiamo e non abbiamo nessun
pensiero, pur troviamo un certo piacere in quella scossa in quell’agitazione,
che ci produce la vista fuggitiva di esso oggetto. La quale spiegazione si
ravvicina a quella della Staël, giacchè la noia non è altro che il vuoto dell’anima,
ch’è riempito, come ella dice da quel pensiero, e occupato intieramente per
quel punto. E in fine può anche derivare, e penso che almeno in parte derivi
dallo stesso timore che abbiamo di quel pensiero, per la ragione che in tutte
le cose fisiche e morali, il voler troppo intensamente e il timore di non
conseguire, distorna le nostre azioni dal loro fine, e il mettersi ad un’operazione
di mano p.e. chirurgica con troppa intenzion d’animo e timore di non riuscire,
la manda a male, e nelle lettere, o belle arti, il cercar la semplicità con
troppa cura, e paura di non trovarla, la fa perdere ec.
L’orrore
e il timore della fatalità e del destino si prova più (anche oggidì che la
superstizione è quasi bandita dal mondo) nelle anime forti e grandi, che nelle
mediocri per cagione che i desideri e i fini di quelle sono fissi, e ch’elle li
seguono con ardore, con costanza, e risoluzione invariabile. Così era più
ordinariamente presso gli antichi, appo i quali la fermezza e la costanza e la
forza e la magnanimità erano virtù molto più ordinarie che fra i moderni. E
vedendo essi che spesse volte anzi frequentissimamente i casi della vita si oppongono
ai desideri dell’uomo, erano compresi da terrore per la ragione della loro
immobilità nel desiderare o nel diriggere le loro azioni a quel tale scopo che
forse e probabilmente non avrebbero [91] potuto conseguire. Infatti
nella infinita varietà dei casi è molto più improbabile che segua precisamente
quello a cui tu miri invariabilmente, che gl’infiniti altri possibili. Ora
accadendone piuttosto un altro non è effetto di destino fisso che ti
perseguiti, ma di cieco accidente. Essi tuttavia com’è naturale come per un’illusione
ottica o meccanica confondevano (e gli animi forti ed ardenti tuttora
confondono) l’immobilità loro propria con quella degli avvenimenti, e perchè
non erano spiriti da secondarli e adattarvisi, immaginavano che l’immobilità
stesse non in se ma nei medesimi avvenimenti già stabiliti dal destino. Laddove
gli spiriti mediocri, senza fermezza nè certezza di mire, nella moltiplicità
dei loro fini, e si abbattono più facilmente a uno o più di quelli che
desiderano, e anche nel caso opposto cedono senza difficoltà all’andamento
delle cose, e da questo si lasciano trasportare, piegare, regolare, andando a
seconda degli avvenimenti. Così essi non avendo immobilità in loro, nè vedendo
la somma difficoltà di concordare i loro disegni cogli avvenimenti hanno l’intelletto
più libero, e non pensano che la fortuna opponga loro un’opposizione forte e
stabile, (la qual forza e stabilità non è veramente se non nella resistenza che
le anime grandi oppongono agl’instabilissimi e casuali avvenimenti) ma considerano
tutto come effetto del caso, e delle combinazioni, siccom’è infatti. Aggiungi l’invariabilità
non solo dei fini, ma anche dei mezzi nei primi, (cioè ne’ magnanimi) che non
permette loro di cambiar principii, nè di regolare le loro azioni a norma degli
avvenimenti, ma li conserva sempre costanti nel loro proposito e nel modo di
seguitarlo, mentre il contrario accade nei secondi. E anche senza nessun
proposito nè scopo, si vedrà che la sola fermezza e immutabilità del carattere,
fa illusione sulla forza del destino ch’essendo [92] così vario pare
immutabile a quelli che non vedono se non una sola via, una sola maniera di
contenersi di pensare e operare, una sola sorta di avvenimenti, e come questi
dovrebbero o pare a loro che dovrebbero accadere. E questo timore del destino
si trova in conseguenza più o meno anche negli spiriti mediocri, o puramente
ragionevoli e filosofici ec. quando provano qualche desiderio o mirano a
qualche fine in modo che divengano immobili intorno a quel punto. V. Staël Corinne
l.13. c.4. p.306. t.2. edizione citata poco sopra. L’illusione che ho detto si
può in qualche modo paragonare a quella che noi proviamo credendo la terra
immobile perchè noi siam fermi su di lei, quantunque ella giri e voli
rapidissimamente. E già si sa che anche nei magnanimi ella è più viva e
presente secondo che essi si trovano in circostanze di desideri e mire più
vive, determinate e focose forti ferme ec. nelle grandi passioni ec.
La
società francese la quale fa che l’esprit naturel se tourne en épigrammes
plutôt qu’en poésie, dice la Staël, (vedila, Corinne, liv.15. chap.9. p.80.
t.3. edizione citata da me alla p.87.) rende ancora epigrammatica tutta la loro
scrittura, ed abituati come sono a dare a tutti i loro detti nella
conversazione, une tournure che li renda gradevoli, un’aria di novità, una
grazia ascitizia, un garbo proccurato ec. ponendosi a scrivere, e stimando
naturalmente che la scrittura non li disobblighi da quello a cui gli obbliga la
raffinatezza della conversazione, (naturale nel paese dove lo spirito di
società è così grande, anzi è l’anima e lo scopo e il tutto della vita) e per
lo contrario credendo che quest’obbligo sia maggiore nello scrivere che nel
parlare (e con ragione avuto riguardo al gusto de’ lettori nazionali che
altrimenti li disprezzerebbero) si abbandonano a quello stesso studio che
adoprano nella conversazione per renderla aggradevole e piccante ec. e però il
loro stile è così diverso da [93] quello de’ greci e de’ latini e degl’italiani,
non essendo possibile ch’essi accettino quella prima frase che si presenta
naturalmente e da se a chi vuole esprimere un sentimento. E però le grazie
naturali sono affatto sbandite dal loro stile, anzi è curioso il vedere quello
ch’essi chiamino naturalezza e semplicità, come p.e. in La Fontaine tanto
decantato per queste doti. In luogo delle grazie naturali il loro stile è tutto
composto delle grazie di società e di conversazione, e quando queste sono
conseguite essi chiamano il loro stile, semplice, come fanno sempre anche in
astratto quando paragonano lo stil francese all’italiano p.e. o al latino ec.
parte avuto riguardo alla collocazione materiale delle parole e alla
costruzione del periodo, e divisione del discorso ec. paragonata con quella
delle altre lingue, parte alla mancanza delle ampollosità delle gonfiezze,
delle figure troppo evidenti, dei giri e rigiri per dire una stessa cosa ec.
ec. che si trovano nei cattivi stili delle altre lingue, e che nel francese
sono affatto straordinari e sarebbero fischiati. E questa chiamano purezza di
gusto, ed hanno ragione da un lato, ma dall’altro non conoscono quella
semplicità così intrinseca come estrinseca dello stile che non ha niente di
comune coll’eleganza la politezza la tournure la raffinatezza il limato il
ricercato della conversazione, ma sta tutta nella natura, nella pura
espressione de’ sentimenti che è presentata dalla cosa stessa, e che riceve
novità e grazia piuttosto dalla cosa, se ne ha, che da se medesima e
dal lavoro dello scrittore, quella schiettezza di frase le cui grazie sono
ingenite e non ascitizie, quel modo di parlare che non viene dall’abitudine
della conversazione e che par naturale solamente a chi vi è accostumato (cioè
ai francesi e agli altri nutriti sempre di cose francesi) ma dalla natura
universale, e dalla stessa materia, quello insomma ch’era [94] proprio
dei greci, e con una certa proporzione, de’ latini, e degl’italiani, di
Senofonte di Erodoto de’ trecentisti ec. i quali sono intraducibili nella
lingua francese. Cosa strana che una lingua di cui essi sempre vantano la
semplicità non abbia mezzi per tradurre autori semplicissimi, e di uno stile il
più naturale, libero, inaffettato, disinvolto, piano, facile che si possa
immaginare. E pur la cosa è rigorosamente vera, e basta osservar le traduzioni
francesi da classici antichi per veder come stentino a ridurre nel loro stile
di società e di conversazione ch’essi chiamano semplice (e ch’è divenuto
inseparabile dalla loro lingua anzi si è quasi confuso con lei) quei prototipi
di manifesta e incontrastabile semplicità; e come esse sieno lontane dal
conservare in nessun modo il carattere dello stile originale. Qui comprendo
anche le Georgiche di Delille intese da orecchie non francesi, e quella
generale osservazione fatta anche dalla Staël nella Biblioteca Italiana che le
traduzioni francesi da qualunque lingua hanno sempre un carattere nazionale e
diverso dallo stile originale e anche dalle parti più essenziali di esso, e
anche da’ sentimenti. E basta anche notare come le traduzioni e lo stile d’Amyot
veramente semplicissimo (e non però suo proprio ma similissimo a quello de’
suoi originali, e tra le lingue moderne, all’italiano) si allontanino dall’indole
della presente lingua francese, non solo quanto alle parole e ai modi
antiquati, ma principalmente nelle forme sostanziali, e nell’insieme dello
stile, che ora di francese non può avere altro che il nome, e che sarebbe
chiamato barbaro in un moderno, levato anche ogni vestigio d’arcaismo. E
scommetto ch’egli riesce più facile a intendere agl’italiani, che ai francesi
non dotti, massime nelle lingue classiche.
Il
posseder più lingue dona una certa maggior facilità e chiarezza di pensare seco
stesso, perchè noi [95] pensiamo parlando. Ora nessuna lingua ha forse
tante parole e modi da corrispondere ed esprimere tutti gl’infiniti particolari
del pensiero. Il posseder più lingue e il potere perciò esprimere in una quello
che non si può in un’altra, o almeno così acconciamente, o brevemente, o che
non ci viene così tosto trovato da esprimere in un’altra lingua, ci dà una
maggior facilità di spiegarci seco noi e d’intenderci noi medesimi, applicando
la parola all’idea che senza questa applicazione rimarrebbe molto confusa nella
nostra mente. Trovata la parola in qualunque lingua, siccome ne sappiamo il
significato chiaro e già noto per l’uso altrui, così la nostra idea ne prende
chiarezza e stabilità e consistenza e ci rimane ben definita e fissa nella
mente, e ben determinata e circoscritta. Cosa ch’io ho provato molte volte, e
si vede in questi stessi pensieri scritti a penna corrente, dove ho fissato le mie idee con parole greche francesi latine, secondo che mi rispondevano più
precisamente alla cosa, e mi venivano più presto trovate. Perchè un’idea senza
parola o modo di esprimerla, ci sfugge, o ci erra nel pensiero come indefinita
e mal nota a noi medesimi che l’abbiamo concepita. Colla parola prende corpo, e
quasi forma visibile, e sensibile, e circoscritta.
Spesse
volte il caso ha renduto espressivissima una parola che parrebbe perciò
originale e derivata dalla cosa, mentre non è che una pura figlia d’etimologia.
P.e. nausea quella parola sì espressiva presso i latini e gl’italiani
(v. questi pensieri p.12.) deriva dal greco naèw nave, onde nautÛa, ionicamente nausÛa, e in latino nausea perch’ella
suole accadere ai naviganti.
Bisognerebbe
vedere se quell’oracolo della porca bianca da trovarsi da Enea all’imboccatura
del Tevere per buono ed ultimo augurio secondo Virgilio, avesse qualche altro
significato ed origine nota e verisimile, non fattizia e arbitraria, perchè non
avendone, io suppongo che derivi dal nome di troia che noi diamo alle [96] porche,
e che a cagione di questo oracolo mi par ben da sospettare che fosse anche voce
antica e popolare latina nello stesso significato, e così la porca venisse
popolarmente considerata come un emblema di Troia, nella stessa guisa che
presentemente parecchie città e famiglie hanno per insegna quell’animale o
quell’oggetto materiale ch’è chiamato con un nome simile al loro. V. la Cron. d’Euseb.
l.1. c.46. e nota che quel racconto benchè da scrittor greco è preso anche
quivi e attribuito intieramente a un latino. V. p.511. capoverso 1.
In
proposito di quello che ho detto p.76. e segg. In questi pensieri si può
osservare che quando noi per qualche circostanza ci troviamo in istato di
straordinario e passeggero vigore, come avendo fatto uso di liquori che
esaltino le forze del corpo senza però turbar la ragione, ci sentiamo
proclivissimi all’entusiasmo, nè però questo entusiasmo ha nulla di
malinconico, ma è tutto sublime nel lieto, anzi le idee dolorose, ed una soave
mestizia e la pietà non trova luogo allora nel cuor nostro o almeno non son
questi i sentimenti ch’ei preferisce, ma il vigore che proviamo dà un risalto
straordinario alle nostre idee, ed abbellisce e sublima ogni oggetto agli occhi
nostri, e quello è il tempo di sentir gli stimoli della gloria, dell’amor
patrio, dei sacrifizi generosi (ma considerati come bene non come sventura) e
delle altre passioni antiche. Quindi possiamo congetturare quale dovesse essere
ordinariamente l’entusiasmo degli antichi che si trovavano incontrastabilmente
in uno stato di vigor fisico abituale, superiore al nostro ordinario; il quale
quanto noceva e nuoce alla ragione, tanto favorisce l’immaginazione, e i
sentimenti focosi gagliardi ed alti. Colla differenza che noi avvezzi nel corso
della nostra vita a compiacerci, al contrario degli antichi, nelle idee
dolorose, anche in quel vigore, sentendoci delle spinte al sentimento, ci
potremo compiacere molto più facilmente che non faceano gli antichi di qualcuna
di queste tali idee, quantunque non cercata allora di preferenza. Ma osservo
che in quei momenti anche le idee malinconiche ci si presentano come un aria di
festa che la felicità non ci pare un’illusione, [97] anzi ancora le
dette idee ci si offrono come conducenti alla felicità, e la sventura come un
bene sublime che ci fa palpitar e d’entusiasmo e di speranza, e sentiamo una
gran confidenza in noi stessi e nella fortuna e nella natura, quando anche ella
non sia nel nostro carattere, o nell’abitudine contratta colla sperienza della
vita.
Una
delle cose più dispiacevoli, è il sentir parlare di un soggetto che c’interessi,
senza potervi interloquire. E molto più se ne parlano a sproposito, o ignorando
una circostanza un fatto ec. che noi potremmo narrar loro, o in contraddizione
coi nostri sentimenti, in maniera che vengano a concludere il contrario di
quello che noi stimiamo o sappiamo. Il che è penoso anche quando la cosa non ci
riguardi in nessun modo personalmente, nè anche c’interessi. Ma soprattutto s’ella
ci riguarda o interessa, è veramente opera da uomo riflessivo lo schivare
questi tali discorsi in presenza p.e. di domestici che non vi potrebbero metter
bocca, o di altri inferiori, i quali sentendo toccare il tasto che è loro a
cuore, senza potervi avere nessuna parte attiva, ne proverebbero molta pena,
attaccandosi come farebbero intieramente e con grande studio alla passiva di
ascoltare, non ostante l’inquietudine che sfuggirebbero rinunziando anche a
questa parte, il che però non ci è possibile.
Si suol
dire che per ottenere qualche grazia è opportuno il tempo dell’allegrezza di
colui che si prega. E quando questa grazia si possa far sul momento, o non
costi impegno ed opera al supplicato, convengo anch’io in questa opinione. Ma
per interessar chicchessia in vostro favore, ed impegnarlo a prendersi qualche
benchè piccola premura di un vostro affare, non c’è tempo più assolutamente
inopportuno di quello della gioia viva. Ogni volta che l’uomo è occupato da
qualche passion forte, è incapace di pensare ad altro, ogni volta che o la sua
propria infelicità o la sua propria fortuna l’interessano vivamente, e lo
riempiono, è incapace di pigliar premura de’ negozi delle infelicità dei
desiderii altrui. Nei [98] momenti di gioia viva o di dolor vivo l’uomo
non è suscettibile nè di compassione, nè d’interesse per gli altri, nel dolore
perchè il suo male l’occupa più dell’altrui, nella gioia perchè il suo bene l’inebbria,
e gli leva il gusto e la forza di occuparsi in verun altro pensiero. E
massimamente la compassione è incompatibile col suo stato quando egli o è tutto
pieno della pietà di se stesso, o prova un’esaltazione di contento che gli
dipinge a festa tutti gli oggetti e gli fa considerar la sventura come un’illusione,
per lo meno odiarla come cosa alienissima da quello che lo anima e lo riempie
tutto in quel punto. Solamente gli stati di mezzo, sono opportuni all’interesse
per le cose altrui, o anche un certo stato di entusiasmo senza origine e senza
scopo reale, che gli faccia abbracciar con piacere l’occasione di operare
dirittamente, di beneficare, di sostituir l’azione all’inazione, di dare un
corpo ai suoi sentimenti, e di rivolgere alla realtà quell’impeto di entusiasmo
virtuoso, magnanimo generoso ec. che si aggirava intorno all’astratto e all’indefinito.
Ma quando il nostro animo è già occupato dalla realtà, ossia da quell’apparenza
che noi riguardiamo come realtà, il rivolgerlo ad un altro scopo, è impresa
difficilissima e quello è il tempo più inopportuno di sollecitar l’interesse
altrui per la vostra causa, quand’esso è già tutto per la propria, e lo
staccarnelo riuscirebbe penosissimo al supplicato. Molto più se la gioia sia di
quelle rare che occorrono nella vita pochissime volte, e che ci pongono quasi
in uno stato di pazzia, sarebbe da stolto il farsi allora avanti a quel tale,
ed esponendogli con qualsivoglia eloquenza i propri bisogni e le proprie
miserie, sperare di distorlo dal pensiero ch’è padrone dell’animo suo, e che
gli è sì caro, e quel ch’è più, condurlo ad operare o a risolvere efficacemente
d’operare per un fine alieno da quel pensiero, al quale egli è così intento
anche in udirvi, che appena vi ascolta, e se vi ascolta, cerca di abbreviare il
discorso, di ridur tutto in compendio, (per poi dimenticarlo affatto) ed ogni suo
desiderio è rivolto al momento in cui avrete finito, e lo lascerete pascere di
quel pensiero che lo signoreggia, ed anche parlarvene, e rivolgere
immediatamente la [99] conversazione sopra quel soggetto.
Udrai
dire sovente che per esser compatito o per interessare, giova indirizzarsi a
chi abbia provato le stesse sventure, o sia stato nella stessa tua condizione.
Se intendono del passato, andrà bene. Ma non c’è uomo da cui tu possa sperar
meno che da chi si ritrova presentemente nella stessa calamità o nelle stesse
circostanze tue. L’interesse ch’egli prova per se, soffoca tutto quello che
potrebbe ispirargli il caso tuo. Ad ogni circostanza, ad ogni minuzia del tuo
racconto, egli si rivolge sopra di se, e le considera applicandole alla sua
persona. Lo vedrai commosso, crederai che senta pietà di te, ma la sente di se
stesso unicamente. T’interromperà ad ogni tratto con dirti: appunto ancor io:
oh per l’appunto se sapessi quello ch’io provo: questo è propriamente il caso
mio. Fa al proposito l’esempio d’Achille piangente i suoi mali mentre ha Priamo
a’ suoi ginocchi. Si proverà anche d’estenuare la tua miseria, il tuo bisogno,
la ragionevolezza de’ tuoi desideri, per ingrandire quello che lo riguarda: Va
bene, ma abbi pazienza, tu hai pure questo tal conforto: io all’opposto, e così
discorrendo. In somma sarà sempre impossibile di rivolger l’interesse vivo e
presente che uno ha per se, sopra i negozi altrui, (parlo anche, serbata una
certa proporzione, degli uomini di cuore e d’entusiasmo) e quando l’uomo è occupato
intieramente del suo dolore, (o anche della sua gioia e di qualunque passion
viva) indurlo ad interessarsi per quello d’un altro, massimamente se sia
della stessa specie. Sarà sempre impossibile attaccar l’egoismo così di fronte,
quando anche da lato è così difficile a spetrare. E soprattutto trattandosi di
azione non isperar mai nulla da un giovane che come te si trovi disgustato
della vita domestica, e come te senta il bisogno di proccurarsi i mezzi di
troncarla, da un militare disgraziato come te, o che corra collo stesso impegno
e colla stessa vivezza di desiderio agli onori, da un malato che sia tutto
occupato ed afflitto da una malattia simile alla tua ec. ec.
Pare un
assurdo, e pure è esattamente vero che tutto il reale essendo un nulla, non v’è
altro di reale nè altro di sostanza al mondo che le illusioni.
[100]
È cosa osservata
degli antichi poeti ed artefici, massimamente greci, che solevano lasciar da
pensare allo spettatore o uditore più di quello ch’esprimessero. (V. p.86-87.
di questi pensieri) E quanto alla cagione di ciò, non è altra che la loro
semplicità e naturalezza, per cui non andavano come i moderni dietro alle
minuzie della cosa, dimostrando evidentemente lo studio dello scrittore, che
non parla o descrive la cosa come la natura stessa la presenta, ma va
sottilizzando, notando le circostanze, sminuzzando e allungando la descrizione
per desiderio di fare effetto, cosa che scuopre il proposito, distrugge la
naturale disinvoltura e negligenza, manifesta l’arte e l’affettazione, ed
introduce nella poesia a parlare più il poeta che la cosa. Del che v. il mio
discorso sopra i romantici, e vari di questi pensieri. Ma tra gli effetti di
questo costume, dico effetti e non cagioni, giacchè gli antichi non pensavano
certamente a questo effetto, e non erano portati se non dalla causa che ho
detto, è notabilissimo quello del rendere l’impressione della poesia o dell’arte
bella, infinita, laddove quella de’ moderni è finita. Perchè descrivendo con
pochi colpi, e mostrando poche parti dell’oggetto, lasciavano l’immaginazione
errare nel vago e indeterminato di quelle idee fanciullesche, che nascono dall’ignoranza
dell’intiero. Ed una scena campestre p.e. dipinta dal poeta antico in pochi
tratti, e senza dirò così, il suo orizzonte, destava nella fantasia quel divino
ondeggiamento d’idee confuse, e brillanti di un indefinibile romanzesco, e di
quella eccessivamente cara e soave stravaganza e maraviglia, che ci solea
rendere estatici nella nostra fanciullezza. Dove che i moderni, determinando
ogni oggetto, e mostrandone tutti i confini, son privi quasi affatto di questa
emozione infinita, e invece non destano se non quella finita e circoscritta,
che nasce dalla cognizione dell’oggetto intiero, e non ha nulla di stravagante,
ma è propria dell’età matura, che è priva di quegl’inesprimibili diletti della
vaga immaginazione provati nella fanciullezza.
[101]La cagione per cui gli uomini di
gusto e di sentimento provano una sensazione dolorosa nel leggere p.e. le
continuazioni o le imitazioni dove si contraffanno le bellezze gli stili ec.
delle opere classiche, (v. quello che dice il Foscolo della continuazione del
Viaggio di Sterne) è che queste in certo modo avviliscono presso noi stessi l’idea
di quelle opere, per cui ci eravamo sentiti così affettuosi, e verso cui
proviamo una specie di tenerezza. Il vederle così imitate e spesso con poca
diversità, e tuttavia in modo ridicolo, ci fa quasi dubitare della
ragionevolezza della nostra ammirazione per quei grandi originali, ce la fa
quasi parere un’illusione, ci dipinge come facili triviali e comuni quelle doti
che ci aveano destato tanto entusiasmo, cosa acerbissima di vedersi quasi in
procinto di dover rinunziare all’idolo della nostra fantasia, e rapire in certo
modo, e denudare, e avvilire agli occhi nostri l’oggetto del nostro amore e
della nostra venerazione ed ammirazione. Perchè in ogni sentimento dolce e
sublime entra sempre l’illusione, ch’è il più acerbo dolore il vedersi togliere
e svelare. Perciò quelle tali imitazioni ci sarebbero gravi quando anche
gareggiassero cogli originali, togliendoci l’inganno di quell’unico e
impareggiabile che forma il caro prestigio dell’amore e della maraviglia. Nella
stessa guisa che ci riesce dolorosissimo il vedere o porre in ridicolo, o
travisare, o imitare gli oggetti de’ nostri sentimenti del cuore; (v. Staël
Corinne liv. Penult. ch. [6.] p. [328.] ediz. quinta di Parigi) cosa che ci fa
o dubitare o certificare della loro vanità reale, e della nostra illusione, e
ci strappa a quei soavi inganni che costituiscono la nostra vita: nè c’è cosa
che abbia questa forza più della precisa imitazione o somiglianza di un altro
oggetto che non possiamo pregiare nè amare (sia per qualche grado di
inferiorità reale, di ridicolo, di travisamento ec. sia anche quando la
somiglianza non abbia niente [102]o poco d’inferiore) con quello che
pregiamo ed amiamo, e che occupa il cuore e l’immaginazione nostra in modo che
ne siamo gelosissimi e paurosi, e cerchiamo in tutti i modi di custodirlo. (8.
Gen. 1820.)
È pure
un tristo frutto della società e dell’incivilimento umano anche quell’essere
precisamente informato dell’età propria e de’ nostri cari, e quel sapere con
precisione che di qui a tanti anni finirà necessariamente la mia o la loro
giovinezza ec. ec. invecchierò necessariamente o invecchieranno, morrò senza
fallo o morranno, perchè la vita umana non potendosi estendere più di tanto, e
sapendo formalmente la loro età o la mia io veggo chiaro che dentro un definito
tempo essi o io non potremo più viver goder della giovinezza ec. ec. Facciamoci
un’idea dell’ignoranza della propria età precisa ch’è naturale, e si trova
ancora comunemente nelle genti di campagna, e vedremo quanto ella tolga a tutti
i mali
ordinari
e certi che il tempo reca alla nostra vita, mancando la previdenza sicura che
determina il male e lo anticipa smisuratamente, rendendoci avvisati del quando
dovranno finire indubitatamente questi e quei vantaggi della tale e tale età di
cui godo ec. Tolta la quale l’idea confusa del nostro inevitabile decadimento e
fine, non ha tanta forza di attristarci, nè di dileguare le illusioni che d’età
in età ci consolano. Ed osserviamo quanto sia terribile in un vecchio p.e. d’80.
anni, quel sapere determinatamente che dento 10. anni al più egli sarà
sicuramente estinto, cosa che ravvicina la sua condizione a quella di un
condannato, e toglie infinitamente a quel gran benefizio della natura d’averci
nascosto l’ora precisa della nostra morte che veduta con precisione basterebbe
per istupidire di spavento, e scoraggiare tutta la nostra vita.
Ci sono
tre maniere di vedere le cose. L’una e la più beata, di quelli per li quali
esse hanno anche più spirito che corpo, e voglio dire degli [103]uomini
di genio e sensibili, ai quali non c’è cosa che non parli all’immaginazione o al
cuore, e che trovano da per tutto materia di sublimarsi e di sentire e di
vivere, e un rapporto continuo delle cose coll’infinito e coll’uomo, e una vita
indefinibile e vaga, in somma di quelli che considerano il tutto sotto un
aspetto infinito e in relazione cogli slanci dell’animo loro. L’altra e la più
comune di quelli per cui le cose hanno corpo senza aver molto spirito, e voglio
dire degli uomini volgari (volgari sotto il rapporto dell’immaginazione e del
sentimento, e non riguardo a tutto il resto, p.e. alla scienza, alla politica
ec. ec.) che senza essere sublimati da nessuna cosa, trovano però in tutte una
realtà, e le considerano quali elle appariscono, e sono stimate comunemente e
in natura, e secondo questo si regolano. Questa è la maniera naturale, e la più
durevolmente felice, che senza condurre a nessuna grandezza, e senza dar gran
risalto al sentimento dell’esistenza, riempie però la vita, di una pienezza non
sentita, ma sempre uguale e uniforme, e conduce per una strada piana e in
relazione colle circostanze dalla nascita al sepolcro. La terza e la sola
funesta e miserabile, e tuttavia la sola vera, di quelli per cui le cose non
hanno nè spirito nè corpo, ma son tutte vane e senza sostanza, e voglio dire
dei filosofi e degli uomini per lo più di sentimento che dopo l’esperienza e la
lugubre cognizione delle cose, dalla prima maniera passano di salto a quest’ultima
senza toccare la seconda, e trovano e sentono da per tutto il nulla e il vuoto,
e la vanità delle cure umane e dei desideri e delle speranze e di tutte le
illusioni inerenti alla vita per modo che senza esse non è vita. E qui voglio
notare come la ragione umana di cui facciamo tanta pompa sopra gli altri
animali, e nel di cui perfezionamento facciamo consistere quello dell’uomo, sia
miserabile e incapace di farci non dico felici ma meno infelici, anzi di
condurci alla stessa saviezza, che par tutta consistere nell’uso intero della
ragione. Perchè chi si fissasse nella considerazione e nel sentimento continuo
del nulla verissimo e certissimo delle cose, in maniera [104]che la
successone e varietà degli oggetti e dei casi non avesse forza di distorlo da
questo pensiero, sarebbe pazzo assolutamente e per ciò solo, giacchè volendosi
governare secondo questo incontrastabile principio ognuno vede quali sarebbero
le sue operazioni. E pure è certissimo che tutto quello che noi facciamo lo
facciamo in forza di una distrazione e di una dimenticanza, la quale è
contraria direttamente alla ragione. E tuttavia quella sarebbe una verissima
pazzia, ma la pazzia la più ragionevole della terra, anzi la sola cosa
ragionevole, e la sola intera e continua saviezza, dove le altre non
sono se non per intervalli. Da ciò si vede come la saviezza comunemente intesa,
e che possa giovare in questa vita, sia più vicina alla natura che alla
ragione, stando fra ambedue e non mai come si dice volgarmente con questa sola,
e come essa ragione pura e senza mescolanza, sia fonte immediata e per sua
natura di assoluta e necessaria pazzia.
Dopo che
l’eroismo è sparito dal mondo, e in vece v’è entrato l’universale egoismo,
amicizia vera e capace di far sacrificare l’uno amico all’altro, in persone che
ancora abbiano interessi e desideri, è ben difficilissimo. E perciò quantunque
si sia sempre detto che l’uguaglianza è l’una delle più certe fautrici dell’amicizia,
io trovo oggidì meno verisimile l’amicizia fra due giovani che fra un giovane,
e un uomo di sentimento già disingannato del mondo, e disperato della sua
propria felicità. Questo non avendo più desideri forti è capace assai più di un
giovane d’unirsi ad uno che ancora ne abbia, e concepire vivo ed efficace
interesse per lui, formando così un’amicizia reale e solida quando l’altro
abbia anima da corrispondergli. E questa circostanza mi pare anche più
favorevole all’amicizia, che quella di due persone egualmente disingannate,
perchè non restando desideri nè interessi in veruno, non resterebbe materia all’amicizia
e questa rimarrebbe limitata alle parole e ai sentimenti, ed esclusa dall’azione.
Applicate questa osservazione al caso mio col mio degno e singolare amico, e al
non averne trovato altro tale, quantunque conoscessi ed amassi e fossi amato da
uomini d’ingegno e di ottimo cuore.
[105]E una delle gran cagioni del
cangiamento nella natura del dolore antico messo col moderno, è il
Cristianesimo, che ha solennemente dichiarata e stabilita e per così dire
attivata la massima della certa infelicità e nullità della vita umana, laddove
gli antichi come non doveano considerarla come cosa degna delle loro cure, se
gli stessi Dei secondo la loro mitologia s’interessavano sì grandemente alle
cose umane per se stesse (e non in relazione a un avvenire), erano animati
dalle stesse passioni nostre, esercitavano particolarmente le nostre stesse
arti (la musica, la poesia ec.), e in somma si occupavano intieramente delle
stesse cose di cui noi ci occupiamo? Non è però ch’io consideri intieramente il
cristianesimo come cagion prima di questo cangiamento, potendo anzi esserne
stato in parte prodotto esso stesso (come opina Beniamino Constant in un
articolo sui PP. della Chiesa riferito nello Spettatore) ma solamente come
propagatore principale di tale rivoluzione del cuore.
Non per
questo che il piacere del dolore è conforto all’infelicità moderna, l’ignoranza
di esso piacere era difetto alla felicità antica.
Come
nella speranza o in qualunque altra disposizione dell’animo nostro, il bene
lontano è sempre maggiore del presente, così per l’ordinario nel timore è più
terribile il male.
Per le
grandi azioni che la maggior parte non possono provenire se non da illusione,
non basta ordinariamente l’inganno della fantasia come sarebbe quello di un
filosofo, e come sono le illusioni de’ nostri giorni tanto scarsi di grandi
fatti, ma si richiede l’inganno della ragione, come presso gli antichi. E un
grande esempio di questo è ciò che accade ora in Germania dove se qualcuno si
sacrifica per la libertà (come quel Sand uccisore di Cotzebue) non accade come
potrebbe parere, per effetto della semplice antica illusione di libertà, e d’amor
patrio e grandezza di azioni, ma per le fanfaluche mistiche di cui quegli [106]studenti
tedeschi hanno piena la testa, e ingombra la ragione come apparisce dalle
gazzette di questi giorni dove anche si recano le loro lettere piene di
opinioni stravaganti e ridicole, che fanno dell’amor della libertà una nuova
religione, tutta nuovi misteri.
Quando
io era fanciullo, diceva talvolta a qualcuno de’ miei fratellini, tu mi farai
da cavallo. E legatolo a una cordicella, lo venia conducendo come per la
briglia e toccandolo con una frusta. E quelli mi lasciavano fare con diletto, e
non per questo erano altro che miei fratelli. Io mi ricordo spesso di questo
fatto, quando io vedo un uomo (sovente di nessun pregio) servito riverentemente
da questo e da quello in cento minuzie, ch’egli potrebbe farsi da se, o fare
ugualmente a quelli che lo servono, e forse n’hanno più bisogno di lui, che
alle volte sarà più sano e gagliardo di quanti ha dintorno. E dico fra me, nè i
miei fratelli erano cavalli, ma uomini quanto me, e questi servitori sono
uomini quanto il padrone e simili a lui in ogni cosa; e tuttavia quelli si
lasciavano guidare benchè fossero tanto cavalli quant’era io, e questi si
lasciano comandare; e tra questi e quelli non vedo nessun divario.
(26. Marzo 1820.)
Le genti
per la città dai loro letti nelle lor case in mezzo al silenzio della notte si
risvegliavano e udivano con ispavento per le strade il suo orribil pianto ec.
Stile
francese. Stile di conversazione. Stile ordinario de’ nostri pittori. Stile
arcadico, o frugoniano.
Come
potrà essere che la materia senta e si dolga e si disperi della sua propria
nullità? E questo certo e profondo sentimento (massime nelle anime grandi)
della vanità e insufficienza di tutte le cose che si misurano coi sensi,
sentimento non di solo raziocinio, ma vero e per modo di dire sensibilissimo
sentimento e dolorosissimo, come non dovrà [107]essere una prova
materiale, che quella sostanza che lo concepisce e lo sperimenta, è di un’altra
natura? Perchè il sentire la nullità di tutte le cose sensibili e materiali
suppone essenzialmente una facoltà di sentire e comprendere oggetti di natura
diversa e contraria, ora questa facoltà come potrà essere nella materia? E si noti
ch’io qui non parlo di cosa che si concepisca colla ragione, perchè infatti la
ragione è la facoltà più materiale che sussista in noi, e le sue operazioni
materialissime e matematiche si potrebbero attribuire in qualche modo anche
alla materia, ma parlo di un sentimento ingenito e proprio dell’animo nostro
che ci fa sentire la nullità delle cose indipendentemente dalla ragione, e
perciò presumo che questa prova faccia più forza, manifestando in parte la
natura di esso animo. La natura non è materiale come la ragione.
Il
riso dell’uomo sensitivo e oppresso da fiera calamità è segno di disperazione
già matura. V. p.188.
Mi
diedi tutto alla gioia barbara e fremebonda della disperazione.
Se noi
diciamo tomba e i greci dicevano tæmbow nello stesso significato chi non
vorrà credere che gli antichi latini abbian detto tumbus o tumba
dal greco, onde noi tomba mutato l’u in o secondo il solito? Perchè dal
greco immediatamente non è possibile che il volgare l’abbia preso, (e notate
che in greco moderno si pronunzia timbos, sicchè se questa derivazione non
fosse antichissima noi non diremmo tomba, ma timba) e d’altronde le due parole
sono troppo somiglianti, e nello stesso valore, perchè l’una non derivi
evidentemente dall’altra. V. il Du Fresne e il Forcellini sì per questa come
per tutte le altre parole ch’io credo antiche e latine in questi pensieri.
Kam‹ra espressamente per cubiculum si trova in Arriano
Stor. di Alessandro l.7. verso il fine. Transversare per attraversare è voce non solamente de’ bassi tempi ma antica, e sta nel Moretum. Camminare
la bugia su pel naso, si diceva anche ai tempi di Teocrito. Della voce Kam‹ra v. Fabric. B. G. in nota ad Phot. Cod.213. ed. vet. t.9. p.449.
[108]Vedi come la debolezza sia cosa
amabilissima a questo mondo. Se tu vedi un fanciullo che ti viene incontro con
un passo traballante e con una cert’aria d’impotenza, tu ti senti intenerire da
questa vista, e innamorare di quel fanciullo. Se tu vedi una bella donna
inferma e fievole, o se ti abbatti ad esser testimonio a qualche sforzo inutile
di qualunque donna, per la debolezza fisica del suo sesso, tu ti sentirai
commuovere, e sarai capace di prostrarti innanzi a quella debolezza e
riconoscerla per signora di te e della tua forza, e sottomettere e sacrificare tutto
te stesso all’amore e alla difesa sua. Cagione di questo effetto è la
compassione, la quale io dico che è l’unica qualità e passione umana che non
abbia nessunissima mescolanza di amor proprio. L’unica, perchè lo stesso
sacrifizio di se all’eroismo alla patria alla virtù alla persona amata, e così
qualunque altra azione la più eroica e più disinteressata (e qualunque altro
affetto il più puro) si fa sempre perchè la mente nostra trova più
soddisfacente quel sacrifizio che qualunque guadagno in quella occasione. Ed
ogni qualunque operazione dell’animo nostro ha sempre la sua certa e
inevitabile origine nell’egoismo, per quanto questo sia purificato, e quella ne
sembri lontana. Ma la compassione che nasce nell’animo nostro alla vista di uno
che soffre è un miracolo della natura che in quel punto ci fa provare un
sentimento affatto indipendente dal nostro vantaggio o piacere, e tutto
relativo agli altri, senza nessuna mescolanza di noi medesimi. E perciò appunto
gli uomini compassionevoli sono sì rari, e la pietà è posta, massimamente in
questi tempi, fra le qualità le più riguardevoli e distintive dell’uomo
sensibile e virtuoso. [109]Se già la compassione non avesse qualche
fondamento nel timore di provar noi medesimi un male simile a quello che
vediamo. (Perchè l’amor proprio è sottilissimo, e s’insinua da per tutto, e si
trova nascosto ne’ luoghi i più reconditi del nostro cuore, e che paiono più
impenetrabili a questa passione). Ma tu vedrai, considerando bene, che c’è una
compassione spontanea, del tutto indipendente da questo timore, e intieramente
rivolta al misero.
Baggeo deriva altresì dal latino. V. il
mio discorso sulla fama di Orazio. E il francese planer dal greco pl‹nomai, onde anche in latino le stelle
erranti si chiamano planetae cioè errabundi, ed è ben verisimile
che la parola francese sia derivata (non essendo probabile dal greco) da planari
detto forse volgarmente in latino nello stesso senso. E nota in questo
proposito i due participi palans, tis, e palatus, a, um errante,
segno certo di un antico verbo palari, fatto da pl‹nomai colla metatesi della l (come da ‘rpv rapio da morf¯ forma) e colla conseguente elisione
della n. Buonus per bonus è in Frontone, e vedi
le ortografie del Cellario e del Manuzio.
Da §rpv serpo, da ‘lw sal, da ‘llv salio e salto (ora non si trova
altro che ‘llomai), da ²mi semi- (onde forse i francesi demi), da ìdvr sudor, benchè con altro
significato.
L’ubbriachezza
è madre dell’allegrezza, così il vigore. Che segno è questo? Perchè l’ubbriachezza
non cagiona la malinconia? Prima perchè questa deriva dal vero e non dal falso,
e l’ubbriachezza cagiona la dimenticanza del vero, dalla quale sola può
nascere l’allegrezza. Secondo, che gli uomini nello stato di natura, cioè
di vigore molto maggiore del presente, eran fatti per esser felici, e
abbandonarsi alle illusioni, e vederle e sentirle come cose vive e corporee e
presenti.
Le
parole come osserva il Beccaria (trattato dello stile) non presentano la sola
idea dell’oggetto significato, ma quando più quando meno [110]immagini
accessorie. Ed è pregio sommo della lingua l’aver di queste parole. Le voci
scientifiche presentano la nuda e circoscritta idea di quel tale oggetto, e
perciò si chiamano termini perchè determinano e definiscono la cosa da tutte le
parti. Quanto più una lingua abbonda di parole, tanto più è adattata alla
letteratura e alla bellezza ec. ec. e per lo contrario quanto più abbonda di
termini, dico quando questa abbondanza noccia a quella delle parole, perchè l’abbondanza
di tutte due le cose non fa pregiudizio. Giacchè sono cose ben diverse la
proprietà delle parole e la nudità o secchezza, e se quella dà efficacia ed
evidenza al discorso, questa non gli dà altro che aridità. Il pericolo grande
che corre ora la lingua francese è di diventar lingua al tutto matematica e
scientifica, per troppa abbondanza di termini in ogni sorta di cose, e
dimenticanza delle antiche parole. Benchè questo la rende facile e
comune, perch’è la lingua più artifiziale e geometricamente nuda ch’esista
oramai. Perciò ha bisogno di grandi scrittori che appoco appoco la tornino ad
assuefare allo stile e alle voci del Bossuet del Fenelon e degli altri sommi
prosatori del loro buon secolo, e così nella poesia. Mad. di Staël mostra col
fatto di averlo conosciuto, e il suo stile ha molto della pastosità dell’antico
a confronto dell’aridità moderna e di quegli scheletri (regolari ma puri
scheletri) di stile d’oggidì. Ed anche non farebbe male ad attingere alle
antiche sue fonti d’Amyot e degli altri tali che usati con discrezione
ridarebbero alla lingua quel sugo ch’ella oramai ha perduto anche per la
monotona e soverchia regolarità della sua costruzione (che anch’essa
contribuisce massimamente a renderla comune in Europa) di cui tanto si lagnava
il Fenelon ed altri insigni. (V. l’Algarotti Saggio sulla lingua francese.) Adattiamo
questa osservazione a cose meno materiali. [111]V. p.100. di questi
pensieri. E riducendo l’osservazione al generale troveremo il suo fondamento
nella natura delle cose, vedendo come la filosofia e l’uso della pura ragione
che si può paragonare ai termini e alla costruzione regolare, abbia istecchito
e isterilito questa povera vita, e come tutto il bello di questo mondo consista
nella immaginazione che si può paragonare alle parole e alla costruzione libera
varia ardita e figurata. Le voci greche (le voci non i modi) di cui s’è tanto
ingombrata la lingua francese in questi tempi, non possono nelle nostre lingue
esser altro che termini, con significazione nuda e circoscritta, e aria tecnica
e geometrica senza grazia e senza eleganza. E quanto più ne abbonderemo con
pregiudizio delle nostre parole, tanto più toglieremo alla grazia e alla forza
nativa della nostra lingua. Perchè la forza e l’evidenza consiste nel destar l’immagine
dell’oggetto, e non mica nel definirlo dialetticamente, come fanno quelle parole
trasportate nella nostra lingua. Le metafore d’ogni sorta sono adattatissime
per questa cagione alla bellezza naturale e al colorito del discorso. E
la lingua italiana studiata di tanti scrittorelli d’oggidì che ancorchè sia
piena di modi e parole native, riesce sì misera e dissonante, vien tale (oltre
all’affettazione che si manifesta per troppo superficiale perizia del vero
linguaggio italiano, e stentata ricerca di parole e frasi antiche, piuttosto
che gusto e stile modellato giudiziosamente sull’antico, e ridotti in succo e
sangue proprio gli antichi scrittori) perchè fa bruttissimo vedere l’aridità
moderna che questi non sanno schivare, colla freschezza il colorito la
morbidezza la vistosità l’embonpoint la floridezza il vigore ec. antico.
Gridare
a testa o quanto
se n’ha in testa è frase antichissima e greca. Manca ne’ Lessici gr. e lat.
ma si trova in Arriano (ind. c. 30.): ÷son aß kefalaÜ açtoÝsn ¡xÅreon
‹lal‹jai quantum
capita ferre poterant acclamasse interpreta il traduttore.
[112]Quanto i greci facessero caso della
bellezza, oltre alla parola kalokŒgaJòw notata già in questi pensieri, vedi un luogo singolare di un antico in
Clem. Aless. Cohort. ad gentes c.4. dopo il mezzo ediz. di Venez. t.1. p.49.
lin. ult. p.17. nel marg. lat. e p.37. nel marg. gr. Qual è ora quel genitore
che domandi a Dio quella grazia come un bene principale e suo proprio e dei
figli? Intorno ai quali domanderanno piuttosto tutt’altro, sanità, ingegno,
docilità, virtù, abilità nei negozi, favore dei grandi, ricchezza ec. ec. ma
bellezza quando mai? Vedo che m’ha ingannato quella bestia del traduttore, il
quale dice formosos liberos, e il greco t¯n eæteknÛan. Vi so dir io che la differenza è
piccola da vero.
Gesù
Cristo fu il primo che personificasse e col nome di mondo circoscrivesse
e definisse e stabilisse l’idea del perpetuo nemico della virtù dell’innocenza
dell’eroismo della sensibilità vera, d’ogni singolarità dell’animo della vita e
delle azioni, della natura in somma, che è quanto dire la società, e così
mettesse la moltitudine degli uomini fra i principali nemici dell’uomo, essendo
pur troppo vero che come l’individuo per natura è buono e felice, così la
moltitudine (e l’individuo in essa) è malvagia e infelice. (V. p.611. capoverso
1.)
La
pazienza è la più eroica delle virtù giusto perchè non ha nessuna apparenza d’eroico.
Impertinente è una parola tutta latina,
derivata da un verbo latino ec. però è naturale che gli antichi o volgari
latini dicessero impertinens.
La gran
diversità fra il Petrarca e gli altri poeti d’amore, specialmente stranieri,
per cui tu senti in lui solo quella unzione e spontaneità e unisono al tuo
cuore che ti fa piangere, laddove forse niun altro in pari circostanze del
Petrarca ti farà lo stesso effetto, è ch’egli versa il suo cuore, e gli altri l’anatomizzano
(anche i più [113]eccellenti) ed egli lo fa parlare, e gli altri ne
parlano.
La cagione
di quello che dice Montesquieu (Grandeur ec. c.4. Amsterdam 1781. p.31. fine) è
non solamente che nessun privato perde quanto il principe nella rovina di uno
stato, ma eziandio che nessuno crede di poter cagionare quella rovina che non
può impedire.
Agevole viene da agere come facile
da facere, e questo agere essendo ignoto alla nostra lingua, non
è verisimile che il suo derivato agevole non ci sia venuto già bello e
formato dagli antichi latini che avranno detto agibilis.
A colui
che occupa una nuova provincia o per armi o per trattato è molto più
vantaggioso il suscitarci e il mantenerci due fazioni, l’una favorevole e l’altra
contraria al nuovo governo, di quello che averla tutta ubbidiente e sottomessa
e indifferente dell’animo. Perchè la prima fazione essendo ordinariamente più
forte della seconda, e perciò questa non potendo nuocere, si cavano da ciò due
vantaggi. L’uno d’indebolire i paesani e renderli molto più incapaci di
riunirsi insieme per intraprender nulla, di quello che se tutti fossero indifferenti,
il che poi viene a dire tacitamente malcontenti. L’altro di avere un partito
per se molto più energico e infervorato di quello che se non esistesse un
partito contrario, perchè i principi non dovendo aspettarsi di essere amati nè
favoriti dai sudditi per se stessi nè per ragione, debbono cercare di esserlo
per odio degli altri, e per passione. Giacchè il contrasto eccita anche quei
sentimenti che in altro caso appena si proverebbero, e quello che non si
farebbe mai per affetto proprio, si fa per l’opposizione [114]altrui,
come i migliori cattolici sono quelli che vivono in paese eretico, e così l’opposto,
nè ci ebbe mai tanto ostinati e infocati partigiani del papa come a tempo dei
Ghibellini. V. Montesquieu l. c. ch.6. p.68. (5 Giugno 1820.) E neanche dai
benefizi i principi possono aspettar tanto quanto dallo spirito di parte e dal
contrasto che rende l’affare come proprio di colui che lo sostiene, laddove la
gratitudine è un debito verso altrui. E l’esperienza di tutti i secoli dimostra
quanta gratitudine ispirino i benefizi de’ regnanti e dei grandi. E se bene gli
uomini hanno imparato a regolare i capricci e le passioni loro, queste però
naturalmente possono in loro molto più dell’interesse.
Tanto è
vero che l’anarchia conduce dirittamente al dispotismo, e che la libertà
dipende da un’armonia delle parti, e da una forza costante delle leggi e delle
istituzioni della repubblica, che Roma non fu mai tanto libera nel senso comune
di questa parola, quanto nei tempi immediatamente precedenti la tirannia.
Vedete gli affari di Clodio, e Montesquieu l. c. p.115. lin. ult. e 116. lin.1.
e 5. chapit.11.
E
lo stesso si può dir della Francia passata di salto da una libertà furiosa al
dispotismo di Buonaparte.
La
civiltà delle nazioni consiste in un temperamento della natura colla ragione,
dove quella cioè la natura abbia la maggior parte. Consideriamo tutte le
nazioni antiche, la persiana a tempo di Ciro, la greca, la romana. I romani non
furono mai così filosofi come quando inclinarono alla barbarie, cioè a tempo
della tirannia. E [115]parimente negli anni che la precedettero, i
romani aveano fatti infiniti progressi nella filosofia e nella cognizione delle
cose, ch’era nuova per loro. Dal che si deduce un altro corollario, che la
salvaguardia della libertà delle nazioni non è la filosofia nè la ragione, come
ora si pretende che queste debbano rigenerare le cose pubbliche, ma le virtù,
le illusioni, l’entusiasmo, in somma la natura, dalla quale siamo lontanissimi.
E un popolo di filosofi sarebbe il più piccolo e codardo del mondo. Perciò la
nostra rigenerazione dipende da una, per così dire, ultrafilosofia, che
conoscendo l’intiero e l’intimo delle cose, ci ravvicini alla natura. E questo
dovrebb’essere il frutto dei lumi straordinari di questo secolo.
La
barbarie non consiste principalmente nel difetto della ragione ma della natura.
(7. Giugno 1820.)
Gli
esercizi con cui gli antichi si procacciavano il vigore del corpo non erano
solamente utili alla guerra, o ad eccitare l’amor della gloria ec. ma
contribuivano, anzi erano necessari a mantenere il vigor dell’animo, il
coraggio, le illusioni, l’entusiasmo che non saranno mai in un corpo debole
(vedete gli altri miei pensieri) in somma quelle cose che cagionano la
grandezza e l’eroismo delle nazioni. Ed è cosa già osservata che il vigor del
corpo nuoce alle facoltà intellettuali, e favorisce le immaginative, e per lo
contrario l’imbecillità del corpo è favorevolissima al riflettere, (7. Giugno
1820.) e chi riflette non opera, e poco immagina, e le grandi illusioni non son
fatte per lui.
[116]La superiorità della natura sulla
ragione si dimostra anche in questo che non si fa mai cosa con calore che si
faccia per ragione e non per passione, e la stessa religion cristiana che pare
ed è alienissima dalla passione, tuttavia perchè l’umano si mescola in tutto,
non è stata mai seguita e difesa con vero interesse se non quando ci erano
portati da spirito di parte, da entusiasmo ec. Ed anche ora i divoti fanno come
un corpo, e una classe la quale s’interessa per la religione solamente per
ispirito di partito, e quindi le loro malignità verso i non divoti o gl’irreligiosi,
e l’astio ec. e le derisioni, tutte cose umane e passionate, e non divine nè
ragionate nè fatte con posatezza e freddezza d’animo.
(7. Giugno 1820.)
Gli
antichi supponevano che i morti non avessero altri pensieri che de’ negozi di
questa vita, e la rimembranza de’ loro fatti gli occupasse continuamente, e s’attristassero
o rallegrassero secondo che aveano goduto o patito quassù, in maniera che
secondo essi, questo mondo era la patria degli uomini, e l’altra vita un
esilio, al contrario de’ cristiani.
Dovunque
si formano le scienze o le arti o qualunque disciplina, quivi se ne creano i
vocaboli. Se noi italiani non volevamo usar parole straniere nella filosofia
moderna, dovevamo formarla noi. Quelle discipline che noi abbiamo formate (p.e.
l’architettura) hanno i nostri vocaboli anche presso le altre nazioni.
La
cagione di quello che dice Montesquieu, l. c. ch.11. p.124. fine è che l’uomo s’offende
più del disprezzo che del danno. E la cagione di questo è l’amor proprio il
quale considera più noi stessi che i nostri comodi. Vero è che certe anime
basse non si curano del disprezzo, e non si dolgono che [117]dei danni.
La cagione è che in questi l’amor proprio essendo più basso, ha per oggetto
prima i beni materiali che la stima l’onore la dignità della persona, i quali
diremmo in certo modo beni spirituali. Per lo contrario ci sono ancora degli
uomini superiori i quali disprezzando il disprezzo, si guardano però dai danni,
perchè questi son cose reali, e il disprezzo appresso a poco ci nuoce tanto
quanto noi lo stimiamo.
In
quello che dice Montesquieu, l. c. ch.13. p.138. e nella nota, osservate la
differenza de’ tempi e vedete l’esito de’ regicidi francesi a’ tempi nostri. La
cagione è che lo spirito del tempo è, come si dice, di moderazione, vale a dire
d’indolenza e noncuranza, che ora si allega come per tutta difesa la differenza
delle opinioni, quando una volta due persone differenti d’opinioni in certi
punti, erano lo stesso che due nemici mortali, e che ancora considerando un
uomo come reo e scellerato, la virtù ora non interessa tanto come una volta, da
volerlo punito a tutti i patti. Questa vendetta della virtù si voleva e si
cercava una volta in contemplazione di essa virtù. Ora che questa si è
conosciuta per un fantasma, nessuno si cura di far male agli altri, e
procacciarsi odii e nimicizie che son cose reali, per la causa di un ente
illusorio.
In
proposito di quello che dice Montesquieu della codardia fortunata e propizia di
Ottaviano (l. c. ch.13. p.139. fine) considerate che se il Senato l’avesse
veduto [118]coraggioso l’avrebbe creduto intraprendente. Ora chi
intraprende, intraprende per se, e l’intraprendere per se in Ottaviano ch’era l’erede
e il figlio adottivo di Cesare, non poteva esser altro che il cercare la
monarchia. Il vederlo debole fece credere che avrebbe preso il partito dei
buoni ch’è il meno pericoloso, perchè ha per se l’opinione pubblica, ed è la
strada retta e ordinaria. Gli arditi per lo più son cattivi, e il partito buono
è quello dei più deboli, perchè non ci vuole ardire per abbracciare il partito
ovvio e inculcato dalle leggi dalla natura e dall’opinione sociale, cioè quello
della virtù, ma bensì per entrare nel partito odioso del vizio. Il fatto però
sta che era già venuto anche per Roma il tempo che la politica dovea prevalere
al coraggio come ora, e in tutti i tempi corrotti.
Altro
è primitivo altro è barbaro. Il barbaro è già guasto, il primitivo ancora non è
maturo.
Non bisogna credere che un
popolo non sia barbaro perchè non somiglia ad altri barbari (come se i
maomettani non fossero barbari perchè non sono antropofagi). Vedete quante
sorte di barbarie si trovano al mondo, laddove la natura è una sola. Perchè
questa ha leggi immutabili e fisse, ma la corruttela varia infinitamente
secondo le cagioni, e le circostanze vale a dire i costumi le opinioni i climi
i caratteri nazionali ec. ec.
(9. Giugno 1820.)
Una gran
differenza tra la legge di natura e le leggi civili, è questa che la legge
civile o umana si può dimenticare o per [119]distrazione o per altro, e
infrangerla senza leder la coscienza, (come s’io mangio carne non ricordandomi
che sia giorno di magro, o anche ricordandomene, ma per distrazione) laddove la
legge naturale non ammette distrazione, e non può accadere che uno la infranga
non credendo, perch’ella ci sta sempre nel cuore come un istinto che ci avverte
continuamente, e il quale non è soggetto a dimenticanze.
La
naturalezza dello scrivere è così comandata che posto il caso che per
conservarla bisognasse mancare alla chiarezza, io considero che questa è come
di legge civile, e quella come di legge naturale, la qual legge non esclude
caso nessuno, e va osservata quando anche ne debba soffrire la società o l’individuo,
come non è straordinario che accada.
È
osservabile come i francesi mentre sono la nazione più moderna del mondo per
costumi ec. abbiano tuttavia quella disposizione antica che ora tutte le
nazioni civili hanno abbandonata, voglio dire il disprezzo e quasi odio degli
stranieri. Il quale non può tornar loro a nessuna lode, perchè contrasta
assurdamente coll’eccessivo moderno di tutte le altre loro opinioni costumi ec.
Ed è tanto più ridicola, quanto nei greci finalmente era ragionevole, perchè
non avendo conosciuto i romani se non tardissimo, (v. Montesquieu Grandeur ec.
ch.5. p.48. e la nota) non c’era effettivamente altra nazione che gli
uguagliasse di grandissima lunga. E quanto ai Romani è noto che non ostante il
loro sommo amor patrio, furono sempre imparzialissimi [120]nel giudicare
degli stranieri, anzi ebbero per istituto di adottar sempre tutte quelle novità
forestiere che giudicavano utili, quando anche per adottar queste bisognasse
lasciare o correggere le loro proprie usanze.
Nelle
repubbliche le cagioni degli avvenimenti appresso a poco erano manifeste, si
pubblicavano le orazioni che aveano indotto il popolo o il consiglio a venire
in quella tal deliberazione, le ambascerie si eseguivano in pubblico, ec. e poi
dovendosi tutto fare colla moltitudine le parole e le azioni erano palesi, ed
essendoci molti di egual potere, ciascuno era intento a scoprire i motivi e i
fini dell’altro e tutto si divulgava. Vedete p.e. le lettere di Cicerone che
contengono quasi tutta la storia di quei tempi. Ma ora che il potere è ridotto
in pochissimi, si vedono gli avvenimenti e non si sanno i motivi, e il mondo è
come quelle macchine che si muovono per molle occulte, o quelle statue fatte
camminare da persone nascostevi dentro. E il mondo umano è divenuto come il
naturale, bisogna studiare gli avvenimenti come si studiano i fenomeni, e
immaginare le forze motrici andando tastoni come i fisici. Dal che si può
vedere quanto sia scemata l’utilità della storia. V. Montesquieu l.c. ch.13.
fine. V. p.709. capoverso 1.
La
cagione principale di ciò che dice Montesquieu ch.14. p.155. è che il popolo
quantunque sia composto d’individui tutti animati da passioni basse,
contuttociò queste essendo particolari e infinite, non si può cattivare se non
per le passioni generali, cioè con quelle cose che la [121]natura ha
fatte piacevoli generalmente, amabilità, virtù, coraggio, servigi prestati,
abilità negli affari, integrità, onestà, onoratezza ec. Sicchè le elezioni del
popolo non possono costringere il candidato ad abbassarsi se non in piccole
cose, anzi per lo contrario, ad ingrandirsi. Ma le passioni dell’individuo sono
piccole e basse, e quando l’elezione dipende da lui, per cattivarselo è
necessario coll’abbiezione dell’animo farsi indegno di qualunque onore o
vantaggio, e così le dignità è naturale che tocchino per lo più agl’indegni.
Oltre la grande spinta che dà all’ingegno all’eloquenza e a tutte le nobili
facoltà il desiderio di cattivarsi la moltitudine, che ordinariamente non può
giudicare se non colle regole vere, perchè queste sole sono comuni.
Perciò
i giudizi ec. del tempo, e del pubblico sono sempre giusti riguardo a qualunque
oggetto.
La
cagion vera secondo me di quello che dice Montesquieu loc. cit. ch.14. p.157.
di uno fatto accusare da Tiberio per aver venduta colla sua casa la statua dell’imperatore,
e di un altro che ec. è che il materiale e il sensibile, avea molto più forza
sugli antichi, ed era molto più considerato in quei tempi d’immaginazione, che
in questi nostri tutti intellettuali.
Le
cagioni di quello che nota Montesquieu ch.14. fine, e se ne maraviglia, sono 1.
che ciascuno è tanto infelice quanto esso crede, e i poveri e ignoranti si credono
assai meno infelici di quello che fanno i ricchi e istruiti, non già che quelli
non si credano molto più sventurati di questi, ma misurando e ragguagliando l’opinione [122]della propria infelicità quale ambedue la concepiscono si trova
molto maggiore in questi che in quelli. 2. che di un popolo mezzo barbaro è
tutto proprio il timore. 3. che per disprezzar la vita e le sventure non basta
essere infelici, ma si richiede magnanimità e profondità di sentimenti, e forza
d’animo, cose ignote alla plebe, altrimenti prevale il desiderio naturale e
cieco della propria conservazione. 4. che la prosperità dà confidenza, ma le
continue sventure primieramente in luogo di far l’uomo generoso, l’avviliscono
col sentimento della propria debolezza, e gli levano il coraggio, massime se
egli non è magnanimo per natura o per coltura; poi la trista esperienza rende l’uomo
tremebondo a causa del nessuno sperare, e dell’aspettar sempre male. 5.
finalmente che chi ha pochissimo, teme più per quel poco, perchè non è avvezzo
a confidare, nè a immaginar nessuna risorsa, avendone sempre mancato, quando
sia un popolo vissuto sempre nella inazione come i moderni, e non avvezzo a
continue imprese e vicissitudini di fortuna, come gli antichi romani ancorchè
poveri.
La
cagione che adduce Montesquieu dell’esser sovente il principio de’ cattivi
regni, come il fine dei buoni, (ch.15. p.160.) non è buona, perchè va a terra
quando un cattivo principe succede a un buono. Io credo che la vera sia, prima,
che il suo fine essendo di regnar male, egli fa bene nel principio per
inesperienza, e male nell’ultimo, al contrario dei buoni, poi, che una certa
generosità naturale [123]nei primi momenti della prosperità e del potere
è verisimile anche nei cattivi, anzi sarebbe inverisimile il contrario. Poi coll’assuefazione
a quello stato si torna a riprendere il proprio carattere, interrotto da quella
novità straordinaria, come avviene spessissimo nella vita.
L’efficacia
del materiale e dello straordinario anche a questi tempi si può arguire fra le
mille altre cose dal fatto ultimamente accaduto di quei giovani alunni di S.
Michele di Roma usciti tutti in folla e andati al palazzo papale a reclamare
sotto le finestre del Ministro contro gli abusi dell’amministrazione dell’ospizio.
Un memoriale presentato in nome di tutti loro, sarebbe stato indizio dello
stessissimo malcontento, ma non avrebbe fatto lo stesso effetto. Da questo caso
si può anche argomentare quanto il complotto sia più facile nei convitti e
nella milizia, dove ciascuno considerando gli altri come compagni e camerate,
ci pone più confidenza.
Lo
spatrio cioè il trapiantarsi d’un paese in un altro era possiamo dire ignoto
agli antichi popoli civili, finchè durò la loro civiltà, segno di quanto fosse
il loro amor patrio, e l’odio o disprezzo degli stranieri. Al contrario quando
declinarono alla barbarie. (V. Montesquieu Grandeur ec. ch.2. p.20. fine e
ch.16. p.179. e la nota 6.) Le colonie non erano altro che ampliazioni della
patria, dove ciascuno restava fra’ suoi compatriotti, colle stesse leggi,
costumi ec.
[124]La cagione di quella contentezza di
noi stessi che proviamo nel leggere le vite o le gesta dei grandi e virtuosi
(v. Montesquieu l.c. ch.16. p.176.) è che (eccetto i malvagi di professione e
di coscienza, i quali certo non provano questo effetto) l’uomo o è buono, o
mezzo buono mezzo cattivo, come la maggior parte, nel qual caso ciascuno sente
che l’istinto suo naturale e la sua destinazione è la virtù, e si considera
appresso a poco come virtuoso. Ora quello che gli dà una grande idea della
virtù e gli mostra coll’esempio a che cosa porti, e come si faccia ammirare,
accresce l’idea di se stesso, ancorchè uno non vi rifletta, cioè ingrandisce l’opinione
e la stima di quella qualità, che ciascuno, anche senza avvedersene distintamente,
sente esser naturale in lui, e propria del suo essere. Così dico del coraggio,
e dell’eroismo ec. Oltre che quell’esempio e la lode e la fama risultatane a
quei grandi uomini, servendo come di sprone ad imitarli, ciascuno in quel
momento perchè prova un certo desiderio benchè ordinariamente inefficace di
fare altrettanto, si crede capace confusamente di farlo se si presentasse l’occasione,
la quale è lontana, e in lontananza si vedono molte belle cose, e si fanno
molti bei propositi. Omero farà sempre in tutti questo effetto, e un francese
diceva che gli uomini gli parevano un palmo più alti quando leggeva Omero. Per
questo lato anche i cattivi sono suscettibili del detto effetto.
[125]Per li fatti magnanimi è necessaria
una persuasione che abbia la natura di passione, e una passione che abbia l’aspetto
di persuasione appresso quello che la prova.
In
proposito di quello ch’io dico nei miei pensieri p.112. e nel luogo quivi
citato, osservate che ora in uno stile sostenuto sarebbe vergogna il dare all’uditore
un epiteto che ricordasse un pregio del corpo. Non così presso i greci, sia in
ordine alla bellezza, sia alla robustezza ec. Il corpo non era in così basso
luogo presso gli antichi come presso noi. Par che questo sia un vantaggio
nostro, ma pur troppo le cose spirituali non hanno su di noi quella forza che
hanno le materiali, ed osservatelo nella poesia ch’è la imitatrice della
natura, e vedete ch’effetto facciano i poeti metafisici, rispetto agli altri
poeti.
La
filosofia indipendente dalla religione, in sostanza non è altro che la dottrina
della scelleraggine ragionata; e dico questo non parlando cristianamente, e
come l’hanno detto tutti gli apologisti della religione, ma moralmente. Perchè
tutto il bello e il buono di questo mondo essendo pure illusioni, e la virtù,
la giustizia, la magnanimità ec. essendo puri fantasmi e sostanze immaginarie,
quella scienza che viene a scoprire tutte queste verità che la natura aveva
nascoste sotto un profondissimo arcano, se non sostituisce in loro luogo le
rivelate, per necessità viene a concludere che il vero partito in questo mondo,
è l’essere un perfetto egoista, e il far sempre quello che ci torna in maggior
comodo o piacere.
[126]Arriano ancorchè detto il secondo
Senofonte, e vicinissimo certamente a lui nella semplicità e purità dello
stile, e nella negligente varietà e irregolarità della costruzione ec. tuttavia
si distingue da lui in questo ch’egli (forse come uomo vissuto lungo tempo fra
i romani, forse per istudio di Tucidide, forse che la qualità ch’io dirò di
Senofonte non era propria di quel tempo tanto alieno dall’antica candidezza) è
più grave di Senofonte, e non ha quell’amabile familiarità e quasi affabilità
di Senofonte che tratta il lettore come suo amico, e gli racconta o gli parla
come se fosse presente. Così nelle orazioni storiche, Arriano va sempre un
mezzo tuono più alto di Senofonte, il quale nelle stesse orazioni è piuttosto
espositore della cosa che oratore.
L’impressione
che produce l’annunzio improvviso di una grave sventura, non si accresce in
proporzione della maggiore o minor gravità di essa. L’uomo in quel punto la
considera quasi come somma, e tutto l’impeto del dolore si scarica sopra di
essa, in maniera che non avrebbe potuto raddoppiarsi, se la sventura
annunziatagli fosse stata del doppio maggiore, voglio dire però, se sin da
principio gli fosse stata annunziata così, perchè sopravvenendo un altro
annunzio, la successione della cosa lascia luogo all’accrescimento del dolore,
sebbene neanche allora l’accrescimento sarebbe in proporzione del
raddoppiamento della sventura, perchè l’anima è già esaurita e come intorpidita
dal [127]dolore passato. Ieri in mezzo a una festa, due fanciulli
restano oppressi da una pietra caduta da un tetto. Si sparge voce che tutti due
sieno figliuoli di una stessa madre. Poi la gente si consola perchè viene in
chiaro che sono di due donne. Che altro è questo se non rallegrarsi perchè il
dolore si raddoppia veramente, essendo ugualmente grave in ambedue? quando in
una sola appresso a poco sarebbe stato lo stesso in tutti due i casi. E quella
che tramortì all’annunzio, non avrebbe potuto soffrir di più se la sventura per
se stessa fosse stata doppia. Prescindendo dal caso che la morte di due figli
la privasse di tutta la figliuolanza, il che muterebbe la specie della
disgrazia, ed è fuor del caso. E potrebbe anche darsi che quel solo figlio ch’ella
perdè, fosse unico, laonde questa considerazione qui non ha luogo.
(16. Giugno 1820.)
La
gloria non è una passione dell’uomo primitivo affatto e solitario, ma la prima
volta che una truppa d’uomini s’unì per uccidere qualche fiera, o per qualche
altro fatto dov’ebbero mestieri dell’aiuto scambievole, quegli che mostrò più
valore, sentì dirsi bravo schiettamente e senza adulazione da quella gente che
ancora non conoscea questo vizio. La qual parola gli piacque forte, e così egli
come qualche altro spirito magnanimo che sarà stato presente, sentirono per la
prima volta il desiderio della lode. E così [128]nacque l’amor della
gloria.
La qual
passione è così propria dell’uomo in società, e così naturale, che anche ora in
tanta morte del mondo, e mancanza di ogni sorta di eccitamenti, nondimeno i
giovani sentono il bisogno di distinguersi, e non trovando altra strada aperta
come una volta, consumano le forze della loro giovanezza, e studiano tutte le
arti, e gettano la salute del corpo, e si abbreviano la vita, non tanto per l’amor
del piacere, quanto per esser notati e invidiati, e vantarsi di vittorie vergognose,
che tuttavia il mondo ora appalude, non restando a un giovane altra maniera di
far valere il suo corpo, e procacciarsene lode, che questa. Giacchè ora
pochissimo anche all’animo, ma tuttavia all’animo resta qualche via di gloria,
ma al corpo ch’è quella parte che fa il più, e nella quale consiste per natura
delle cose, il valore della massima parte degli uomini, non resta altra strada.
La
varietà che la natura ha posta nelle cose e negl’ingegni, è tanta, che fino gli
stessi filosofi, quantunque tutti cerchino la stessa verità, nondimeno a
cagione dei diversissimi aspetti nei quali una stessa proposizione si presenta
ai diversi ingegni, sarebbero tutti originali, se non leggessero gli altri
filosofi, e non [129]osservassero le cose cogli occhi altrui. Ed è
facile a scoprire che una grandissima parte delle verità dette ai nostri tempi
da quegli scrittori che s’hanno per originali, ancorchè queste verità passino
per nuove, non hanno altro di nuovo che l’aspetto, e sono già state esposte in
altro modo. (18. Giugno 1820.). E vedete come tutti gli scrittori non europei,
come gli orientali, Confucio ec. quantunque dicano appresso a poco le stesse
cose che i nostri, a ogni modo paiono originali, perchè non avendo letto i
nostri filosofi europei, non hanno potuto imitarli, o seguirli e conformarcisi
non volendo, come accade a tutti noi.
Dei
nostri poeti d’oggidì altri non sentono e non pensano, e così scrivono, altri
sentono e pensano ma non sanno dire quello che vorrebbero, e mettendosi a
scrivere, per mancanza di arte, si trovano subito voti, e di tutto quello che
avevano in mente, non trovano più nulla, e volendo pure scrivere si danno al
fraseggiare, e all’epitetare e se la passano in luoghi comuni e così chiudono
la poesia, perchè una cosa nuova da dire gli spaventa, non sapendo trovare l’espressione
che le corrisponda; altri finalmente sentendo e pensando e non sapendo dir
quello che vogliono, tuttavia lo vogliono dire, e questi sono ridicoli per lo
stento l’affettazione la durezza l’oscurità, e la fanciullaggine della maniera,
quando anche [130]i sentimenti non fossero dispregevoli.
In
proposito di quello che ho detto p.96. osservate come ragionevolmente gli
antichi usassero la musica e la danza nei conviti, e segnatamente dopo il
pranzo, come dice Omero nel primo dell’Odissea, e forse anche dove parla di
Demodoco. L’uomo non è mai più disposto che in quel punto ad essere infiammato
dalla musica e dalla bellezza, e da tutte le illusioni della vita.
A quello
che ho detto p.128. aggiungi. Il giovane che entra nel mondo vuol diventarci
qualche cosa. Questo è un desiderio comune e certo di tutti. Ma oggidì il
giovane privato non ha altra strada a conseguirlo fuorchè quella che ho detto,
o l’altra della letteratura che rovina parimente il corpo. Così la gloria d’oggidì
è posta negli esercizi che nuocciono alla salute, in luogo che una volta era
posta nei contrarii. E così per conseguenza s’infiacchiscono sempre più le
generazioni degli uomini, e questo effetto della mancanza d’illusioni esistentc
nel mondo come una volta, divien cagione di questa stessa mancanza, a motivo
del poco vigore secondo quello che ho detto negli altri pensieri, della
necessità del vigor del corpo alle grandi illusioni dell’animo. Sono poi troppo
noti gli spaventosi effetti della ordinaria vita giovanile d’oggidì, che a poco
a poco ridurranno il mondo a uno spedale. Ma che rimedio ci trovereste? Che
altra occupazione resta oggi a un giovane privato, o che altra speranza? E
credete che un giovane si possa contentare di una vita inattiva, [131]senza
nessuna vista, e nessuna aspettativa fuorchè di un’eterna monotonia, e di una
noia immutabile? Anticamente la vanità era considerata come propria delle
donne, perchè anche nelle donne c’è lo stesso desiderio di distinguersi, e
ordinariamente non ne hanno avuto altro mezzo che quello della bellezza. Quindi
il loro cultus sui, il quale diceva Celso che adimi feminis non
potest. Ora resta intorno alla vanità la stessa opinione, che sia propria
delle donne, ma a torto, perchè è propria degli uomini quasi egualmente,
essendo anche gli uomini ridotti alla condizione appresso a poco delle femmine,
rispetto alla maniera di figurare nel mondo, e l’uomo vecchio per la massima
parte, è divenuto inutile e spregevole, e senza vita nè piaceri nè speranze,
come la donna comunemente soleva e suol divenire, che dopo aver fatto molto
parlar di se, sopravvive alla sua fama invecchiando.
Bisogna
escludere dai sopraddetti, i negozianti gli agricoltori, gli artigiani, e in
breve gli operai, perchè in fatti la strage del mal costume non si manifesta
altro che nelle classi disoccupate.
Una
conseguenza del materiale delle religioni antiche e dell’importanza che davano
a questa vita, era che il sacerdozio presso i romani fosse come un grado secolare,
e presso le altre nazioni, i sacerdoti, come i Druidi presso i Galli, si
mescolassero moltissimo negli affari civili, e nelle guerre e nelle paci, e
combattessero ancora negli eserciti [132]per la loro patria, l’amor
della quale tanto è lungi che fosse sbandito dalla religion loro, che anzi n’era
uno de’ fondamenti. E così a un di presso fra gli antichi Ebrei, dove anzi il
governo civile e militare era tutto fondato sopra la religione. E così dirò
degli oracoli consultati per le cose pubbliche, e di tutto l’apparato delle
religioni antiche, sempre ordinato ai negozi di questo mondo.
Relativamente
a quello che ho detto p.80. si può considerare che la barbarie cupa ed oscura,
e vilmente e stranamente crudele de’ bassi tempi, non proveniva solamente dall’ignoranza,
ma da questa mescolata alla religion cristiana. Se fosse stata una barbarie
pagana, quella religione aperta, chiara, materiale, senza misteri, avrebbe dato
a quella ignoranza un colore più allegro, e a quei costumi un carattere meno
profondo. Male menti erano tutte piene di quel sombre, di quel
misterioso, di quel lugubre, di quello spaventoso della religion cristiana
massimamente guasta dalla superstizione; lo spirito del tempo era modellato
sopra queste forme metafisiche e astratte; l’uomo era malvagio per natura della
società, come sempre; aggiunta alla malvagità l’ignoranza la superstizione, e
lo spirito cupo del tempo, il vizio prese il carattere di metafisica, cosa
notabile, e ben diversa dagli antichi vizi che generalmente erano più naturali,
e quantunque gravi e dannosi, tuttavia si soddisfacevano apertamente, o al più
sotto un velo di politica superficialissima. E quindi [133]la barbarie
prese quel carattere tenebroso, e la malvagità divenne scelleraggine
profondissima.
Aggiungete
che la religion pagana come più naturale che ragionevole, avrebbe servito a
conservar qualche poco di natura in quella barbarie. E la natura è un gran
contravveleno e medicamento in ogni corruzione umana, e un gran faro in mezzo
alle tenebre dell’ignoranza, quando non sia spento da una ragione corrotta,
come allora.
Dice
Luciano nelle Lodi della patria (t.2. p.479.): KaÜ toçw katŒ tòn t°w ‹podhmÛaw xrñnon lamproçw genom¡nouw µ diŒ xrhm‹tvn kt°sin, µ diŒ tim°w dñjan (vel ob honoris glriam), µ diŒ paideÛaw marturÛan, µ di€ŽndreÛaw ¦painon,
¦stin ÞdeÝn eÞw
t¯n patrÛda p‹ntaw ¢peigom¡nouw (properantes),Éw oék ’n ¤n lloiw beltÛosin ¤pideijom¡nouw tŒ aétÇn kalŒ kaÜ tosoætÄ ge mllon §kastow
speædei lab¡sJai t°w patrÛdow, ôsÄper ’n faÛnhtai meizñnvn parƒ lloiw ±jivm¡now. Questo è vero, e quando anche tu viva in una
città molto maggiore della tua patria, non ostante il gran cambiamento delle
opinioni antiche a questo riguardo, desidererai anche adesso, se non altro che
la gloria o qualunque altro bene che tu hai acquistato sia ben noto, e faccia
romore particolare nella tua patria. Ma la cagione non è mica l’amor della
patria, come stima Luciano, e come pare a prima vista. E infatti stando nella
tua stessa patria, tu provi lo stesso effetto [134]riguardo alla tua
famiglia, e a’ tuoi più intimi conoscenti. La ragione è che noi desideriamo che
i nostri onori o pregi siano massimamente noti a coloro che ci conoscono più
intieramente, e che ne sieno testimoni quelli che sanno più per minuto le
nostre qualità, i nostri mezzi, la nostra natura, i nostri costumi ec. E come
non ti contenteresti di una fama anonima, cioè di esser celebrato senza che si
sapesse il tuo nome, perchè quella fama, ti parrebbe piuttosto generica che tua
propria, così proporzionatamente desideri ch’ella sia sulle bocche di quelli
presso i quali, conoscendoti più intimamente e particolarmente, la tua stima
viene ad essere più individuale e propria tua, perchè si applica a tutto te,
che sei loro noto minutamente. E viene anche ciò dalla inclinazione che tutti
abbiamo per li nostri simili, onde non saremmo soddisfatti di una fama
acquistata appresso una specie di animali diversa dall’umana, e così venendo
per gradi, poco ci cureremmo di esser famosi fra i Lapponi o gl’irocchesi,
essendo ignoti ai popoli colti, e non saremmo contenti di una celebrità
francese o inglese, essendo sconosciuti ai nostri italiani, e così finalmente
arriveremo ai nostri propri cittadini, e anche alla nostra famiglia. Aggiungete
le tante relazioni che si hanno o si sono avute colle persone più attenenti
alla nostra, le emulazioni, le gare, le invidie, le contrarietà avute, le
amicizie fatte ec. ec. alle quali cose tutte applichiamo il sentimento che ci
cagiona la nostra gloria, o qualunque vantaggio acquistato. In somma [135]la
cagione è l’amore immediato di noi stessi, e non della nostra patria. V. p.536.
capoverso 2.
Io non
credo molto a quello che dice Montesquieu Dialogue de Sylla et d’Eucrate,
particolarmente p.293-295. per ispiegare il carattere e le azioni di Silla.
Questo è il solito errore di creder che gli uomini si formino da principio un
piano seguito di condotta, e seguano sempre un filo di azioni, quando la nostra
natura composta di cento passioni, è sempre piena d’incongruenze, secondo che
questa passione o quell’altra piglia il di sopra. E anche i ragionamenti dell’uomo
sono pieni di variazioni, per cui ora ci par conveniente uno scopo, ed ora un
altro, o volendo arrivare allo stesso scopo, cambiamo strada del continuo.
Solamente serve a mostrar l’ingegno dello scrittore il condurre tutte le azioni
disparatissime di un personaggio famoso, come tante linee a uno stesso punto, e
per questo capo è stimabile e ingegnoso il celebre Manuscrit venu de
Sainte-Helène, attribuito alla Staël. Io credo che Silla avesse veramente una
grandissima ambizione, e questa di comandare, come tutti gli altri, poi,
siccome il fantasma della gloria era ancor grande e potente nelle menti romane,
stimò più ambizioso il rinunziare al comando che il ritenerlo, e così volle
andare allo stesso fine per un’altra strada. Forse ancora il pensiero di farsi
tiranno della patria, non era per anche maturo negli animi romani, nutriti in
così smisurato amore e pregio della libertà: ma la passione di Silla, fu l’odio
civile, e la ferocia [136]verso i suoi competitori, e per isfogarla,
volle il supremo comando, non ostante che per se stesso non lo bramasse, e che
dopo sfogata lo deponesse. Perchè il piacere della vendetta, e del calpestare i
suoi nemici, e vederli intieramente oppressi domati e annientati, è un piacere
anzi un’ambizione che in molti può più che quella del comando in genere. E così
Silla contraddisse ai suoi principii romani e liberali, e diede un esempio
fatale alla libertà, per soddisfare a una passione particolare.
La poesia malinconica e
sentimentale è un respiro dell’anima. L’oppressione del cuore, o venga da
qualunque passione, o dallo scoraggiamento della vita, e dal sentimento
profondo della nullità delle cose, chiudendolo affatto, non lascia luogo a
questo respiro. Gli altri generi di poesia molto meno sono compatibili con
questo stato. Ed io credo che le continue sventure del Tasso sieno il motivo
per cui egli in merito di originalità e d’invenzione restò inferiore agli altri
tre sommi poeti italiani, quando il suo animo per sentimenti, affetti,
grandezza, tenerezza ec. certamente gli uguagliava se non li superava, come
apparisce dalle sue lettere e da altre prose. Ma quantunque chi non ha provato
la sventura non sappia nulla, è certo che l’immaginazione e anche la
sensibilità malinconica non ha forza senza un’aura di prosperità, e senza un
vigor d’animo che non può stare senza un crepuscolo un raggio un barlume di
allegrezza.
(24. Giugno 1820.)
Oggidì
le menti superiori hanno questa proprietà che sono facilissime a concepire
illusioni, e facilissime e prontissime a perderle, (parlo anche delle piccole
illusioni della [137]giornata) a concepirle, per la molta forza dell’immaginazione
a perderle, per la molta forza della ragione.
Mentre
io stava disgustatissimo della vita, e privo affatto di speranza, e così
desideroso della morte, che mi disperava per non poter morire, mi giunge una
lettera di quel mio amico, che m’avea sempre confortato a sperare, e pregato a
vivere, assicurandomi come uomo di somma intelligenza e gran fama, ch’io
diverrei grande, e glorioso all’Italia, nella qual lettera mi diceva di
concepir troppo bene le mie sventure, (Piacenza 18. Giugno) che se Dio mi
mandava la morte l’accettassi come un bene, e ch’egli l’augurava pronta a se ed
a me per l’amore che mi portava. Credereste che questa lettera invece di
staccarmi maggiormente dalla vita, mi riaffezionò a quello ch’io aveva già
abbandonato? E ch’io pensando alle speranze passate, e ai conforti e presagi
fattimi già dal mio amico, che ora pareva non si curasse più di vederli
verificati, nè di quella grandezza che mi aveva promessa, e rivedendo a caso le
mie carte e i miei studi, e ricordandomi la mia fanciullezza e i pensieri e i
desideri e le belle viste e le occupazioni dell’adolescenza, mi si serrava il
cuore in maniera ch’io non sapea più rinunziare alla speranza, e la morte mi
spaventava? non già come morte, ma come annullatrice di tutta la bella
aspettativa passata. E pure quella lettera non mi avea detto nulla ch’io non [138]mi
dicessi già tuttogiorno, e conveniva nè più nè meno colla mia opinione. Io
trovo le seguenti ragioni di questo effetto. 1. Che le cose che da lontano
paiono tollerabili, da vicino mutano aspetto. Quella lettera e quell’augurio mi
metteva come in una specie di superstizione, come se le cose si stringessero, e
la morte veramente si avvicinasse, e quella che da lontano m’era parsa
facilissima a sopportare, anzi la sola cosa desiderabile, da vicino mi pareva
dolorosissima e formidabile. 2. Io considerava quel desiderio della morte come
eroico. Sapeva bene che in fatti non mi restava altro, ma pure mi compiaceva
nel pensiero della morte come in un’immaginazione. Credeva certo che i miei
pochissimi amici, ma pur questi pochi, e nominatamente quel tale mi volessero
pure in vita, e non consentissero alla mia disperazione e s’io morissi, ne
sarebbero rimasti sorpresi e abbattuti, e avrebbero detto. Dunque tutto è
finito? Oh Dio, tante speranze, tanta grandezza d’animo, tanto ingegno senza
frutto nessuno. Non gloria, non piaceri, tutto è passato, come non fosse mai
stato. Ma il pensar che dovessero dire, Lode a Dio, ha finito di penare, ne
godo per lui, che non gli restava altro bene: riposi in pace; questo chiudersi
come spontaneo della tomba sopra di me, questa subita e intiera consolazione
della mia morte ne’ miei cari, quantunque ragionevole, mi affogava, col
sentimento di un mio intiero annullarmi. La previdenza della tua morte ne’ tuoi
amici, che li consola anticipatamente, è la cosa più spaventosa che tu possa
immaginare. [139]3. Lo stato non della mia ragione la quale vedeva il
vero, ma della mia immaginazione era questo. La necessità e il vantaggio della
morte ch’era reale faceva in me l’effetto di un’illusione, a cui l’immaginazione
si affeziona, e il vantaggio e le speranze della vita ch’erano illusorie,
stavano nel fondo del cuor mio come la realtà. Quella lettera di un tale amico,
mise queste cose viceversa. Insomma questa vita è una carnificina senza l’immaginazione,
e la sventura più estrema diventa anche peggiore e somiglia a un vero inferno
quando sei spogliato di quell’ombra d’illusione, che la natura ci suol sempre
lasciare. Se ti sopravviene una calamità senza rimedio, e in qualunque affar
doloroso, il communicarti con un amico, e il sentir che questo ti conferma
intieramente quello che già la tua ragione vedeva troppo chiaro, ti toglie ogni
residuo di speranza, e parendoti di accertarti allora della totalità e
irreparabilità del tuo male, cadi nella piena disperazione.
Da
queste considerazioni impara come tu debba regolarti nel consolare una persona
afflitta. Non ti mostrare incredulo al suo male, se è vero. Non la
persuaderesti, e l’abbatteresti davantaggio, privandola della compassione. Ella
conosce bene il suo male, e tu confessandolo converrai con lei. Ma nel fondo
ultimo del suo cuore le resta una goccia d’illusione. I più disperati credi
certo che la conservano, per benefizio costante della natura. Guarda di non
seccargliela, e vogli piuttosto peccare nell’attenuare il suo male e mostrarti
poco compassionevole, che nell’accertarlo di quello [140]in cui la sua
immaginazione contraddice ancora alla sua ragione. Se anche egli ti esagera la
sua calamità, sii certo che nell’intimo del suo cuore fa tutto l’opposto, dico
nell’intimo, cioè in un fondo nascosto anche a lui. Tu devi convenire non colle
sue parole ma col suo cuore, e come secondando il suo cuore tu darai una certa
realtà a quell’ombra d’illusione che gli resta, così nel caso contrario tu gli
porterai un colpo estremo e mortale. La solitudine e il deserto l’avrebbero
consolato meglio di te, perchè avrebbe avuto con se la natura sempre intenta a
felicitare o a consolare. Parlo delle calamità gravissime e reali che riducono
alla disperazione della vita, e non delle leggere, nelle quali anzi si desidera
di esser creduto esagerando, nè di quelle provenienti da grandi illusioni e
passioni, dove l’uomo forse cerca e vuole la disperazione e fugge il conforto.
Il
dolore o la disperazione che nasce dalle grandi passioni e illusioni o da
qualunque sventura della vita, non è paragonabile all’affogamento che nasce
dalla certezza e dal sentimento vivo della nullità di tutte le cose, e della
impossibilità di esser felice a questo mondo, e dalla immensità del vuoto che
si sente nell’anima. Le sventure o d’immaginazione o reali, potranno anche
indurre il desiderio della morte, o anche far morire, ma quel dolore ha più
della vita, anzi, massimamente se proviene da immaginazione e passione, è pieno
di vita, e quest’altro dolore ch’io dico è tutto morte; e quella [141]medesima
morte prodotta immediatamente dalle sventure è cosa più viva, laddove
quest’altra è più sepolcrale, senz’azione senza movimento senza calore, e quasi
senza dolore, ma piuttosto con un’oppressione smisurata e un accoramento simile
a quello che deriva dalla paura degli spettri nella fanciullezza o dal pensiero
dell’inferno. Questa condizione dell’anima è l’effetto di somme sventure reali,
e di una grand’anima piena una volta d’immaginazione e poi spogliatane affatto,
e anche di una vita così evidentemente nulla e monotona, che renda sensibile e
palpabile la vanità delle cose, perchè senza ciò la gran varietà delle
illusioni che la misericordiosa natura ci mette innanzi tuttogiorno, impedisce
questa fatale e sensibile evidenza. E perciò non ostante che questa condizione
dell’anima sia ragionevolissima anzi la sola ragionevole, con tutto ciò essendo
contrarissima anzi la più dirittamente contraria alla natura, non si sa se non
di pochi che l’abbiano provata, come del Tasso.
La
parola è un’arte imparata dagli uomini. Lo prova la varietà delle lingue. Il
gesto è cosa naturale e insegnata dalla natura. Un’arte 1. non può mai
uguagliar la natura, 2. per quanto sia familiare agli uomini, si danno certi
momenti in cui questi non la sanno adoperare. Perciò negli accessi delle grandi
passioni, 1. come la forza della natura è straordinaria, quella della parola
non arriva ad esprimerla, 2. l’uomo è così occupato, che l’uso di un’arte per
quanto familiarissima, [142]gli è impossibile. Ma il gesto essendo naturale,
lo vedrete facilmente dar segno di quello che prova con gesti e moti spesso
vivissimi, o con grida inarticolate, fremiti, muggiti ec. che non hanno che
fare colla parola, e si possono considerare come gesti. Eccetto se quella
passione non produrrà in lui l’immobilità che suol essere effetto delle grandi
passioni ne’ primi momenti in cui egli non è buono a nessun’azione. Nei momenti
successivi non essendo buono all’uso della parola cioè dell’arte, pur è capace
degli atti e del movimento. Del resto lo vedrete sempre in silenzio. Il
silenzio è il linguaggio di tutte le forti passioni, dell’amore (anche nei
momenti dolci) dell’ira, della maraviglia, del timore ec.
Nei trasporti d’amore, nella
conversazione coll’amata, nei favori che ne ricevi, anche negli ultimi, tu vai
piuttosto in cerca della felicità di quello che provarla, il tuo cuore agitato,
sente sempre una gran mancanza, un non so che di meno di quello che sperava, un
desiderio di qualche cosa anzi di molto di più. I migliori momenti dell’amore
sono quelli di una quieta e dolce malinconia dove tu piangi e non sai di che, e
quasi ti rassegni riposatamente a una sventura e non sai quale. In quel riposo
la tua anima meno agitata, è quasi piena, e quasi gusta la felicità. (V.
Montesquieu Temple de Gnide canto 5. dopo il mezzo. p.342.). Così anche nell’amore,
ch’è lo stato dell’anima il più ricco di piaceri e d’illusioni, la miglior
parte, la più dritta strada al piacere, e a un’ombra di felicità, è il dolore.
(27. Giugno 1820.)
Curae
leves loquuntur, ingentes stupent sta per epigrafe del n.95. dello Spectator inglese,
senza nome d’autore.
[143]Che vuol dire che fra tanti
imitatori che si sono trovati di opere e di scrittori classici, nessuno è
pervenuto ad occupare un grado di fama non dico uguale, ma neppur vicino a
quello dell’imitato? Non è già verisimile che essendo più facile l’inventis
addere, e il perfezionare una cosa inventata, che l’inventarla già perfetta, ed
essendoci stati molti imitatori di sommo ingegno, massimamente in Italia in un
tempo dove l’imitare era cosa di moda, e perciò diveniva occupazione anche dei
migliori (come Sanazzaro imitator di Virgilio, il Tasso del Petrarca ec.), non
si sia mai data nessun’imitazione che almeno agguagli l’opera imitata, e per
conseguenza meritasse un posto compagno a quello dell’originale. Ma il fatto
sta che in materia di letteratura o di arti, basta accorgersi dell’imitazione,
per metter quell’opera infinitamente al di sotto del modello, e che in questo caso,
come in molti altri, la fama non ha tanto riguardo al merito assoluto ed
intrinseco dell’opera, quanto alla circostanza dello scrittore o dell’artefice.
Laonde, o imitatori qualunque vi siate, disperate affatto di arrivare all’immortalità,
quando bene le vostre copie valessero effettivamente molto più dell’originale.
Nella
carriera poetica il mio spirito ha percorso lo stesso stadio che lo spirito
umano in generale. Da principio il mio forte era la fantasia, e i miei versi
erano pieni d’immagini, e delle mie letture poetiche io cercava sempre di
profittare riguardo alla immaginazione. Io era bensì sensibilissimo anche agli
affetti, ma esprimerli in poesia non sapeva. Non aveva ancora meditato intorno
alle cose, e della filosofia non avea che un barlume, e questo in grande, e con
quella solita illusione che noi ci facciamo, cioè che nel mondo e nella vita ci
debba esser sempre un’eccezione a favor nostro. Sono stato sempre sventurato,
ma le mie sventure d’allora erano piene di vita, e mi disperavano perchè mi
pareva (non veramente alla ragione, ma ad una saldissima immaginazione) che m’impedissero
la felicità, della quale gli altri credea che godessero. In somma il mio stato
era allora in tutto e per tutto come quello degli antichi. [144]Ben è
vero che anche allora, quando le sventure mi stringevano e mi travagliavano
assai, io diveniva capace anche di certi affetti in poesia, come nell’ultimo
canto della Cantica. La mutazione totale in me, e il passaggio dallo stato
antico al moderno, seguì si può dire dentro un anno, cioè nel 1819. dove
privato dell’uso della vista, e della continua distrazione della lettura,
cominciai a sentire la mia infelicità in un modo assai più tenebroso, cominciai
ad abbandonar la speranza, a riflettere profondamente sopra le cose (in questi
pensieri ho scritto in un anno il doppio quasi di quello che avea scritto in un
anno e mezzo, e sopra materie appartenenti sopra tutto alla nostra natura, a
differenza dei pensieri passati, quasi tutti di letteratura), a divenir
filosofo di professione (di poeta ch’io era), a sentire l’infelicità certa del
mondo, in luogo di conoscerla, e questo anche per uno stato di languore
corporale, che tanto più mi allontanava dagli antichi e mi avvicinava ai
moderni. Allora l’immaginazione in me fu sommamente infiacchita, e quantunque
la facoltà dell’invenzione allora appunto crescesse in me grandemente, anzi
quasi cominciasse, verteva però principalmente, o sopra affari di prosa, o
sopra poesie sentimentali. E s’io mi metteva a far versi, le immagini mi venivano
a sommo stento, anzi la fantasia era quasi disseccata (anche astraendo dalla
poesia, cioè nella contemplazione delle belle scene naturali ec. come ora ch’io
ci resto duro come una pietra); bensì quei versi traboccavano di sentimento.
Così si
può ben dire che in rigor di termini, poeti non erano se non gli antichi, e non
sono ora se non i fanciulli o giovanetti, e i moderni che hanno questo nome,
non sono altro che filosofi. Ed io infatti non divenni sentimentale, se non
quando perduta la fantasia divenni insensibile alla natura, e tutto dedito alla
ragione e al vero, in somma filosofo.
È cosa
già molte volte osservata che come le Accademie scientifiche forse hanno
giovato alle scienze, promosse e facilitate le [145]scoperte ec. così le
letterarie hanno piuttosto pregiudicato alla letteratura. Infatti le Accademie
scientifiche non hanno quasi mai seguito un sistema di filosofia, ma lasciato
il campo libero al ritrovamento della verità, qualunque sistema ne dovesse
esser favorito, e massimamente nelle cose naturali era difficile seguire un
sistema, dovendo promuovere le scoperte che non possono derivare se non dal
vero, e non si può prevedere che cosa riveleranno, e a che sistema si
adatteranno. Se avessero seguito un sistema, avrebbero pregiudicato alle
scienze, come le Accademie letterarie alla letteratura. Il fatto sta che questa
benchè abbia le sue regole, tuttavia il porre in chiaro queste regole, e il
decretarle e il farne un codice, non le ha mai giovato. Tutti i grandi poeti
greci sono stati prima di Aristotele, e tutti i latini prima o
contemporaneamente ad Orazio. Ma dunque non giova che il buon gusto sia
promosso e promulgato, e costituito per norma delle opere letterarie?
Certamente ci vuole il buon gusto in una nazione ma questo dev’essere negl’individui
e nella nazione intiera, e non in un’adunanza cattedratica, e legislatrice, e
in una dittatura. Primieramente non è facile il promuovere le opere di genio.
Gli onori la gloria gli applausi i vantaggi sono mezzi efficacissimi per
promuoverle, ma non quegli onori e quella gloria che derivano dagli applausi di
un’Accademia. Gli antichi greci e anche i romani avevano le loro gare pubbliche
letterarie, ed Erodoto scrisse la sua storia per leggerla al popolo. Questo era
ben altro stimolo che quello di una piccola società tutta di persone coltissime
e istruitissime dove l’effetto non può esser mai quello che si fa nel popolo, e
per piacere ai critici si scrive 1. con timore, cosa mortifera, 2. si cercano
cose straordinarie, finezze, spirito, mille bagattelle. Il solo popolo
ascoltatore può far nascere l’originalità la grandezza e la [146]naturalezza
della composizione. In secondo luogo se il promuovere il genio non giova, se
gli sproni non l’aiutano, il freno l’ammazza, intendo un freno messogli dagli
altri e non dal proprio giudizio. Se questo manca, non ci è rimedio, ma la
magistratura letteraria non fa nascere le virtù letterarie, se non ci sono i
buoni costumi, intendo il retto giudizio e il buon gusto. Ma se il gusto è
corrotto non gioverà il promulgarlo, il ristabilirlo ec.? Gioverà, voglio dire
che le Accademie riusciranno a fare che non si scriva più male, ma non che si
scriva bene. L’Arcadia fu stabilita per isbandire il seicentismo. Fu sbandito,
ma lo stile Arcadico è un nome derisorio che si dà in Italia a quelle poesie
che non sanno di carne nè pesce. Ora che rimedio trovereste al cattivo gusto?
Ripeto quello che ho detto nel principio dei miei pensieri. Quasi tutte le
nazioni colte dopo il loro secol d’oro, hanno avuto quello della corruzione, e
ne sono risorte. Ma dopo questo, un numero di scrittori veramente grandi e
paragonabili ai primi (dico in letteratura, non in fatto di pensieri, filosofia
ec.), insomma un altro secol d’oro è un esempio che ancora mi resta da vedere.
Negli ottimi secoli i grandi scrittori avevano modelli del buono da seguire, ma
non del cattivo da fuggire. Quelli possono giovare, questi nocciono. Dico che i
cattivi scrittori che si avevano, sì come non formavano classe, perchè il gusto
universale era buono, si dimenticavano affatto, e si sapeva a un di presso in
generale che non piacevano, piuttosto che perchè non piacevano. Certamente l’idea
de’ loro vizi non era specificata, nè i difetti notati per minuto, e si vede
infatti che anche sommi scrittori cadevano in difetti puerili. In somma la
scienza del buono e del cattivo non era organizzata, nè sminuzzata. Il gusto
naturale tenea luogo di tutto. Dopo la corruzione i letterati si rialzano tutti
sbigottiti. Entrano gli scrupoli, le paure, le sottigliezze. Si pesa [147]ogni
cosa, si aguzzano gli occhi, si va col piede di piombo, ogni legge ogni regola
ogni idea è ben definita e circoscritta, si prevedono tutti i casi, il gusto
non è più naturale ma artefatto, o lo diviene, perchè nessuno crede di potersi
contentare del gusto naturale, l’arte e la critica vanno al sommo, la natura si
perde (forse ella può più nel secolo guasto che nel seguente), nascono opere
perfette ma non belle.
Tutto
quello, si può dire, che i moderni viaggiatori osservano e raccontano di
curioso e singolare nei costumi e nelle usanze delle nazioni incivilite, non è
altro che un avanzo di antiche istituzioni, massimamente se quelle
particolarità spettano alle classi colte. Perchè la natura quando è più libera,
come anticamente, e ora in gran parte appresso il popolo, è sempre varia. Ma
certamente nel moderno non troveranno niente di singolare nè di curioso, e
tutto quello che c’è da vedere negli altri paesi possono far conto di averlo
veduto nel proprio senza viaggiare. Eccetto le piccole differenze provenienti
dal clima e dal carattere di ciaschedun popolo, i quali però vanno sempre
cedendo all’impulso moderno di uguagliare ogni cosa, e certamente da per tutto,
massime nelle classi colte, si ha cura di allontanare tutto quello che c’è di
singolare e di proprio nei costumi della nazione, e di non distinguersi dagli
altri se non per una maggior somiglianza col resto degli uomini. E in genere si
può dire che la tendenza dello spirito moderno è di ridurre tutto il mondo una
nazione, e tutte le nazioni una sola persona. Non c’è più vestito proprio di
nessun popolo, e le mode in vece d’esser nazionali, sono europee ec.: anche la
lingua oramai divien tutt’una per la gran propagazione del francese, la quale
io non riprendo in quanto all’utile, ma bene in quanto al bello.
[148]Ora quell’¦row che Esiodo dice
essere un dono degli Dei per promuovere il bene e l’accrescimento degli uomini,
si può dire che sia tolta di mezzo fra le nazioni, e quasi anche fra gl’individui.
Una volta le nazioni cercavano di superar le altre, ora cercano di somigliarle,
e non sono mai così superbe come quando credono di esserci riuscite. Così gl’individui.
A che scopo, a che grandezza a che incremento può portare questa bella gara?
Anche l’imitare è una tendenza naturale, ma ella giova, quando ci porta a
cercar la somiglianza coi grandi e cogli ottimi. Ma chi cerca di somigliare a
tutti? anzi perciò appunto sfugge di somigliare ai grandi e agli ottimi, perchè
questi si distinguono dagli altri? Quando saremo tutti uguali, lascio stare che
bellezza che varietà troveremo nel mondo, ma domando io che utile ce ne verrà?
Massimamente alle nazioni (perchè il male è naturalmente più grande nei
rapporti di nazione a nazione, che d’individuo a individuo) che stimolo resterà
alle grandi cose, e che speranza di grandezza, quando il suo scopo non sia
altro che l’uguagliarsi a tutte le altre? Non era questo lo scopo delle nazioni
antiche. E non si creda che l’uguagliarsi nei costumi e nelle usanze, senza
però volersi uguagliare nel potere nella ricchezza nell’industria nel commercio
ec. non debba influire sommamente anche sopra queste altre cose, influendo
sullo spirito generale della nazione. Poco dopo che Roma fu divenuta una specie
di colonia greca in fatto di costumi e letteratura, divenne serva come greci.
Ma
questa è una bella curiosità, che mentre le nazioni per l’esteriore vanno a
divenire tutta una persona, e oramai non si distingue più uomo da uomo, ciascun
uomo poi nell’interiore è divenuto una nazione, vale a dire che non hanno più
interesse comune con chicchessia, non formano più corpo, non hanno più patria,
e l’egoismo gli ristringe dentro il solo circolo de’ propri interessi, senza
amore nè cura [149]degli altri, nè legame nè rapporto nessuno interiore
col resto degli uomini. Al contrario degli antichi, che mentre le nazioni per l’esteriore
erano composte di diversissimi individui, nella sostanza poi, e nell’importante,
o in quel punto in cui giova l’unità della nazione, erano in fatti tutta una
persona, per l’amor patrio, le virtù, le illusioni ec. che riunivano tutti gl’individui
a far causa comune, e ad essere i membri di un sol corpo. E per questo capo si
può dire che ora ci son tante nazioni quanti individui, bensì tutti uguali
anche in questo che non hanno altro amore nè idolo che se stessi.
Ed ecco
un’altra bella curiosità della filosofia moderna. Questa signora ha trattato l’amor
patrio d’illusione. Ha voluto che il mondo fosse tutta una patria, e l’amore
fosse universale di tutti gli uomini: (contro natura, e non ne può derivare
nessun buono effetto, nessuna grandezza ec. L’amor di corpo, e non l’amor degli
uomini ha sempre cagionato le grandi azioni, anzi spessissimo a molti spiriti
ristretti, la patria come corpo troppo grande non ha fatto effetto, e perciò si
sono scelti altri corpi, come sette, ordini, città, provincie ec.). L’effetto è
stato che in fatti l’amor di patria non c’è più, ma in vece che tutti gl’individui
del mondo riconoscessero una patria, tutte le patrie si son divise in tante
patrie quanti sono gl’individui, e la riunione universale promossa dalla
egregia filosofia s’è convertita in una separazione individuale.
Quello
che ho detto qui sopra dell’amore o spirito di corpo, deriva da questo. Tutti
gli affetti umani derivano dall’amor proprio conformato in diversissime guise.
L’efficacia loro è tanto maggiore, quanto derivano da un amor proprio più
sensibile, [150]e gli recano maggiore soddisfazione. Ora nello spirito
di corpo la soddisfazione dell’amor proprio è in ragione inversa della
grandezza del circolo. Gli spiriti elevati sono suscettibili di un circolo più
grande, ma se questo è smisurato, la detta soddisfazione svanisce prima di
arrivare alla periferia ch’è in tanta distanza dal centro, cioè l’individuo,
come il suono, gli odori, i raggi luminosi si estinguono a una certa distanza
dal centro della sfera.
(3. Luglio 1820.)
Quantum
ad in vece di quod attinet ad, come noi diciamo quanto a, e i francesi quant à,
è usato da Tacito, Agricol. cap.44. Et ipse quidem, quamquam medio in spatio
integrae aetatis ereptus, QUANTUM AD GLORIAM, longissimum aevum peregit.
Esempio e significato omesso nel Forcellini e nell’Appendice.
(3. Luglio 1820.)
Quel che
ho detto qui sopra non è l’ultima delle cagioni per cui il fervore del
Cristianesimo s’indebolì colla dilatazione di essa religione, di quella
religione istessa, che (senza però condannare l’amor della patria, dimostrato
dallo stesso Cristo piangente sopra Gerusalemme) tuttavia ha per uno de’
fondamenti l’amore universale verso tutti gli uomini. E contuttociò fintanto ch’ella
fu come una setta, il zelo e l’ardore per sostenerla fu infinito ne’ suoi
seguaci. Quando divenne cosa comune, non fu più riguardato come proprio
quello ch’era di tutti, e lo spirito di corpo essendosi dileguato per la
sua grandezza, l’individuo non ci trovò più la soddisfazione sua particolare, e
il Cristianesimo illanguidì.
Aggiungete
che lo spirito di corpo ci porta a proccurare i vantaggi di esso corpo, e a
compiacerci di quelli che ha, perchè l’individuo che gli appartiene resta con
ciò distinto e superiore agli altri che non gli appartengono. L’amor di patria,
l’amor di setta, di fazione ec. vedete che è tutto fondato sopra l’ambizione,
più o meno nascosta. Per gli spiriti piccoli non [151]è fatto l’amore
della nazione, perchè non arrivano a desiderare nè a compiacersi di sovrastare
a persone così lontane e fuori della loro portata come sono i forestieri. L’amor
poi universale, manca affatto di questo fondamento dell’ambizione, che è la
gran molla che renda operoso l’amor di corpo, e perciò resta naturalmente
inefficace in quasi tutti, non essendoci speranza di distinguersi dagli altri
col mezzo dei vantaggi del suo corpo. E così spento quell’amore ch’è utile per
le ragioni sopraddette, quest’altro non gli subentra, e se anche gli subentra
resta inutile, non movendo efficacemente l’uomo a nessuna intrapresa.
Anche
nell’interiore quasi tutti gli uomini oggidì sono uguali nei principii nei
costumi nel vizio nell’egoismo ec. Sono tutti uguali e tutti separati, laddove
anticamente erano tutti diversi e tutti uniti, e perciò atti alle grandi cose,
alle quali noi siamo inettissimi trovandoci tutti soli. E la stessa nostra
uguaglianza è (cosa curiosa) il motivo della nostra disunione, che nasce dall’universale
egoismo.
(4. Luglio 1820.)
L’amore
universale toglie l’emulazione e la gara del suo corpo coll’altrui, la qual
gara è la cagione dell’accrescimento e dei vantaggi e pregi che gl’individui
cercano di proccurare alla patria, al partito ec. Gli uomini grandi sono
suscettibili di una emulazione grande, come con quelli delle altre nazioni. Gli
uomini piccoli al contrario non sentono emulazione se non coi cittadini de’
paesi d’intorno, con quelli delle altre famiglie, coi suoi propri cittadini ec.
ec. ec.
(4. Luglio 1820.)
Al
levarsi da letto, parte pel vigore riacquistato col riposo, parte per la
dimenticanza dei mali avuta nel sonno, parte per una certa rinnuovazione della
vita, cagionata da quella specie d’interrompimento datole, tu ti senti
ordinariamente o più lieto o meno tristo, di quando ti coricasti. Nella mia
vita infelicissima l’ora meno trista è quella [152]del levarmi. Le
speranze e le illusioni ripigliano per pochi momenti un certo corpo, ed io
chiamo quell’ora la gioventù della giornata per questa similitudine che ha
colla gioventù della vita. E anche riguardo alla stessa giornata, si suol
sempre sperare di passarla meglio della precedente. E la sera che ti trovi
fallito di questa speranza e disingannato, si può chiamare la vecchiezza della giornata.
(4. Luglio 1820.). V. p.193.
capoverso 1.
L’ubbriachezza
mette in fervore tutte le passioni, e rende l’uomo facile a tutte, all’ira,
alla sensualità ec. massime alle dominanti in ciascheduno. Così
proporzionatamente il vigore del corpo. È famoso quello di S. Paolo, castigo
corpus meum et in servitutem redigo. In fatti in un corpo debole non ha
forza nessuna passione.
Altro è
la forza altro la fecondità dell’immaginazione e l’una può stare senza l’altra.
Forte era l’immaginazione di Omero e di Dante, feconda quella di Ovidio e dell’Ariosto.
Cosa che bisogna ben distinguere quando si sente lodare un poeta o chicchessia
per l’immaginazione. Quella facilmente rende l’uomo infelice per la profondità
delle sensazioni, questa al contrario lo rallegra colla varietà e colla
facilità di fermarsi sopra tutti gli oggetti e di abbandonarli, e
conseguentemente colla copia delle distrazioni. E ne seguono diversissimi
caratteri. Il primo grave, passionato, ordinariamente (ai nostri tempi)
malinconico, profondo nel sentimento e nelle passioni, e tutto proprio a
soffrir grandemente della vita. L’altro scherzevole, leggiero, vagabondo,
incostante nell’amore, bello spirito, incapace di forti e durevoli passioni e
dolori d’animo, facile a consolarsi anche nelle più grandi sventure ec.
Riconoscete in questi due caratteri i verissimi ritratti di Dante e di Ovidio,
e vedete come la differenza della loro poesia [153]corrisponda appuntino
alla differenza della vita. Osservate ancora in che diverso modo Dante ed
Ovidio sentissero e portassero il loro esilio. Così una stessa facoltà dell’animo
umano è madre di effetti contrarii, secondo le sue qualità che quasi la
distinguono in due facoltà diverse. L’immaginazione profonda non credo che sia
molto adattata al coraggio, rappresentando al vivo il pericolo, il dolore, ec.
e tanto più al vivo della riflessione, quanto questa racconta e quella dipinge.
E io credo che l’immaginazione degli uomini valorosi (che non debbono esserne
privi, perchè l’entusiasmo è sempre compagno dell’immaginazione e deriva da
lei) appartenga più all’altro genere.
Tutti
più o meno parlano e gestiscono da se soli, ma principalmente gli uomini di
grande immaginazione, sempre facili a considerar l’immaginato come presente.
Così l’Alfieri nei pareri sulle sue tragedie, racconta di questo suo costume,
massime nei punti di passione o di calore. Il qual costume è proprio più che
mai de’ fanciulli, dove l’immaginazione può molto più che negli uomini.
(5. Luglio 1820.)
Io stimo
che molte parole antiche che si credono di diversissima origine, non sieno
derivate da altro che da antichissimo errore di scrittura, che le ha
diversificate, mentre erano una sola. Mi porta a crederlo la somiglianza
materiale delle lettere o sia dei caratteri, e l’uniformità del significato.
Per esempio dasç vuol
dire lo stesso che l‹sion, e il l‹mbda L e il d¡lta D sono due caratteri
somigliantissimi, e facilissimi a esser confusi nelle scritture. Io non posso
pensare che queste due parole di uno stessissimo significato, e uguali eccetto
nella terminazione che non fa caso, e nella prima lettera di cui si disputa,
non abbiano che far niente fra loro. E credo che si potrebbero addurre molti
altri esempi simili sì greci come latini, dove la mutazione di una lettera o
due, [154]con altre compagne nella figura, ha tolto ai grammatici il
sospetto della loro unicità nell’origine.
(5. Luglio 1820.)
Da
quello che dice Montesquieu Essai sur le Goût. Des plaisirs de l’ame.
p.369-370. deducete che le regole della letteratura e belle arti non possono
affatto essere universali, e adattate a ciascheduno. Bensì è vero che la
maniera di essere di un uomo nelle cose principali e sostanziali è comune a
tutti, e perciò le regole capitali delle lettere e arti belle, sono universali.
Ma alcune piccole o mediocri differenze sussistono tra popolo e popolo tra
individuo e individuo, e massimamente fra secolo e secolo. Se tutti gli uomini
fossero di vista corta, come sono molti l’architettura in molte sue parti
sarebbe difettosa, e converrebbe riformarla. Così al contrario. Intanto ella è
difettosa veramente rispetto a quei tali. Gli orientali aveano ed hanno più
rapidità, vivacità, fecondia ec. di spirito che gli europei. Perciò quella
soprabbondanza che notiamo nelle loro poesie ec. se sarebbe difetto tra noi,
poteva non esserlo, o esser minore appresso un popolo più capace per sua natura
di seguire e di comprendere coll’animo suo quella maniera del poeta. Lo stesso
dite dell’oscurità, del metaforico eccessivo per noi, delle sottigliezze, delle
troppe minuzie, dell’ampolloso ec. ec. E questa distinzione fatela anche tra i
popoli europei, e non condannate una letteratura perchè è diversa da un’altra
stimata classica. Il tipo o la forma del bello non esiste, e non è altro che l’idea
della convenienza. Era un sogno di Platone che le idee delle cose esistessero
innanzi a queste, in maniera che queste non potessero esistere altrimenti (v.
Montesq. ivi. capo 1. p.366.) quando la loro maniera di esistere è affatto
arbitraria e dipendente dal creatore, come dice Montesquieu e non ha nessuna ragione
per esser piuttosto così che in un altro modo, se non la volontà di chi le ha
fatte. E chi sa che non esista un altro, o più, o infiniti altri sistemi di
cose così diversi dal nostro che noi non li possiamo neppur concepire? [155]Ma
noi che abbiamo rigettato il sogno di Platone conserviamo quello di un tipo
immaginario del bello. (V. il discorso di G. Bossi nella B. Italiana). Ora l’idea
della convenienza essendo universale, ma dipendendo dalle opinioni caratteri
costumi ec. il giudizio e il discernimento di quali cose convengano insieme, ne
deriva che la letteratura e le arti, quantunque pel motivo sopraddetto siano
soggette a regole universali nella sostanza principale, tuttavia in molti
particolari debbano cangiare infinitamente secondo non solamente le diverse
nature, ma anche le diverse qualità mutabili, vale a dire opinioni, gusti,
costumi ec. degli uomini, che danno loro diverse idee della convenienza
relativa.
E
similmente osservate quanto sia vano il pensare così assolutamente che la
musica perchè diletta sommamente l’uomo debba fare effetto sulle bestie.
Distinguete suono (sotto questo nome intendo ora anche il canto) e armonia. Il
suono è la materia della musica, come i colori della pittura, i marmi della
scoltura ec. L’effetto naturale e generico della musica in noi, non deriva dall’armonia
ma dal suono, il quale ci elettrizza e scuote al primo tocco quando anche sia
monotono. Questo è quello che la musica ha di speciale sopra le altre arti,
sebbene anche un color bello e vivo ci fa effetto, ma molto minore. Questi sono
effetti e influssi naturali, e non bellezza. L’armonia modifica l’effetto del
suono, e in questo (che solo appartiene all’arte) la musica non si distingue
dalle altre arti, giacchè i pregi dell’armonia consistono nella imitazione
della natura quando esprimono qualche cosa, e in seguire quell’idea della
convenienza dei suoni ch’è arbitraria e diversa in diverse nazioni. Ora il
suono non è difficile che faccia effetto anche nelle bestie, ma non è
necessario, e massimamente quegli stessi suoni che fanno effetto nell’uomo
(quando vediamo anche tra gli uomini che certe nazioni si dilettano di suoni
tutti diversi da’ nostri, e per noi insopportabili). [156]I loro organi,
e indipendentemente da questi, la loro maniera d’essere è differente dalla
nostra, e non possiamo sapere qual sia l’effetto di questa differenza. Tuttavia
se questa non sarà molto grande, o almeno avrà qualche rapporto con noi in
questo punto, il suono farà colpo in quei tali animali, come leggiamo dei
delfini e dei serpenti (V. Chateaubriand). Ma l’armonia è bellezza. La bellezza
non è assoluta, dipendendo dalle idee che ciascuno si forma della convenienza
di una cosa con un’altra, laonde se l’astratto dell’armonia può esser concepito
dalle bestie, non perciò per loro sarà armonia e bellezza quello ch’è per noi.
E così non è la musica come arte ma la sua materia cioè il suono che farà
effetto in certe bestie. E infatti come vogliamo prentendere che le bestie
gustino la nostra armonia, se tanti uomini si trovano che non la gustano? Parlo
di molti individui che sono tra noi, e parlo di nazioni, come dei turchi che
hanno una musica che a noi par dissonantissima e disarmonica. Eccetto il caso
che qualche animale si trovasse in disposizione così somigliante alla nostra,
che nella musica potesse sentire se non tutta almeno in parte l’armonia che noi
ci sentiamo, vale a dire giudicare armonico quello che noi giudichiamo. Il
quale effetto è più difficile assai dell’altro sopraddetto del suono, tuttavia
non è affatto inverisimile.
Con
questa distinzione di suono e armonia, l’uno cagione di effetto naturale e
indipendente dall’arte e generale nell’uomo, (effetto arbitrario della natura,
e non già necessario astrattamente) l’altra di effetto naturale in astratto, ma
dipendente dall’arte in concreto, comprenderete perchè le bestie essendo
talvolta influite dalla musica, non lo sieno dalle altre arti. Ed è perchè la
materia della musica, è così efficace nell’uomo e così generalmente e per
natura, che non è maraviglia se la sua forza si estende anche ad altri animali
forse più analoghi degli altri all’uomo per questa parte della loro natura. Ma
non così la materia delle altre arti, eccetto i colori, i quali [157]come
fanno effetto naturale nell’uomo, così per legge di analogia (che va ammessa
non perchè fosse necessario alla natura di osservarla, ma perchè la vediamo
osservata) congetturo che possano dar qualche diletto anche alle bestie, e
forse se ne avrebbero delle prove. Del resto nelle altre arti le bestie non
essendo influite dalla materia che nella musica ha influsso naturale e
indipendente dall’arte, non possono essere influite dall’arte stessa, non
avendo la stessa idea della bellezza che abbiamo noi, e che è tanto diversa
anche tra noi. E quanto all’imitazione del vero che in noi cagiona una
maraviglia naturale, potrebb’essere che la producesse anche in loro senza che
noi ce ne accorgessimo, e potrebb’essere che non la capissero, ma prendessero
gli oggetti imitati per veri, o finalmente (che dev’essere il più ordinario) si
formassero di quegli oggetti d’arte un’idea confusa tra l’oggetto vero, e un
altro che lo somigli, non potendo sapere quelle cose che sappiamo noi intorno
all’artefice, e alla maniera e alla difficoltà d’imitare in quel modo ec. ec.
cose tutte che producono la maraviglia. E infatti vedrete in molti barbari che
le belle imitazioni delle nostre arti in vece di destare maggior maraviglia,
appena li commuovono.
Del
rimanente anche intorno alla bellezza e a qualunque altra cosa appartenente
alle arti, bisogna sempre ricordarsi della differente maniera di esistere,
differente capacità di comprendere, di rapportare, di esser commossi ec. e così
regolarsi nell’istituire il paragone tra l’uomo e gli altri animali, e anche
tra un uomo e un altr’uomo, non riputando necessario e assoluto e perciò
universale quello ch’è arbitrario e relativo o nell’uomo o in qualunque
animale, e perciò può non trovarsi o trovarsi differentemente negli altri.
Il
piacere che ci dà il suono non va sotto la categoria del bello, ma è come
quello del gusto dell’odorato ec. La natura ha dato i suoi piaceri a tutti i
sensi. Ma la particolarità del suono è di produrre per se stesso un effetto più
spirituale [158]dei cibi dei colori degli oggetti tastabili ec. E
tuttavia osservate che gli odori, in grado bensì molto più piccolo, ma pure
hanno una simile proprietà, risvegliando l’immaginazione ec. Laonde quello
stesso spirituale del suono è un effetto fisico di quella sensazione de’ nostri
organi, e infatti non ha bisogno dell’attenzione dell’anima, perchè il suono
immediatamente la tira a se, e la commozione vien tutta da lui, quando anche l’anima
appena ci avverta. Laddove la bellezza o naturale o artifiziale non fa effetto
se l’anima non si mette in una certa disposizione da riceverlo, e perciò il
piacere che dà, si riconosce per intellettuale. Ed ecco la principal cagione
dell’essere l’effetto della musica immediato, a differenza delle altre arti, e
v. questi pens. p.79.
Osservate
come non si legga ch’io sappia di nessun effetto prodotto nelle bestie dal
canto. (In verità anticamente si diceva, excantare, ora incantare
i serpenti, e Frigidus in pratis CANTANDO rumpitur anguis dice
Virgilio, ma son favole che non hanno esperienze moderne a favore. D’Arione si
legge che innamorò i delfini col suono. Chateaubriand racconta di quel serpente
ammansato dal suono ec. ec. Del resto i poeti dicevano favolosamente che le
bestie si fermassero a udire il canto di questo o di quello). La ragione è
perchè questo è cosa più umana del suono, e perciò di un effetto più relativo,
come anche la differenza dei suoni cagiona diversi effetti secondo la natura
degli organi dove opera. Così nè più nè meno i diversi odori, i diversi sapori,
i diversi colori de’ quali l’uno diletterà principalmente questa persona, e l’altro
quest’altra. Il canto umano fa effetto grande nell’uomo. Al contrario quello
degli uccelli non molto. Grandissimo però dev’essere il diletto che cagiona
negli uccelli, giacchè si vede che questi cantano per diletto, [159]e
che la loro voce non è diretta ad altro fine
come quella degli altri animali. (eccetto
le cicale i grilli e altri tali che nel continuo uso della loro voce non par
che possano avere altro fine che il diletto) Ed io sono persuaso che il canto
degli uccelli li diletti non solo come canto, ma come contenente bellezza, cioè
armonia, che noi non possiamo sentire non avendo la stessa idea della
convenienza de’ tuoni.
Osservate
ancora un finissimo magistero della natura. Gli uccelli ha voluto che fossero
per natura loro i cantori della terra e come ha posto i fiori per diletto dell’odorato,
così gli uccelli per diletto dell’udito. Ora perchè la loro voce fosse bene
intesa, che cosa ha fatto? Gli ha resi volatili, acciocchè il loro canto
venendo dall’alto, si spargesse molto in largo. Questa combinazione del volo e
del canto non è certamente accidentale. E perciò la voce degli uccelli reca a
noi più diletto che quella degli altri animali (fuorchè l’uomo) perchè era
espressamente ordinata al diletto dell’udito. E credo che ne rechi anche più
agli altri animali che sono in uno stato naturale, e forse perciò più capaci di
trovarci o tutta o in parte quell’armonia che ci trovano gli stessi uccelli, e
che noi non ci troviamo, perchè allontanandoci dalla natura, abbiamo perduto
certe idee primitive intorno alla convenienza, non assolute e necessarie, ma
tuttavia dateci forse arbitrariamente dalla natura. Io credo che i selvaggi
trovino il canto degli uccelli molto più dolce, e mi pare che si potrebbe
provar lo stesso degli antichi, i quali è noto che sentivano maggior diletto di
noi nel canto delle cicale ec. delle quali pure e simili si può notare che
cantano sopra gli alberi.
Da tutte
le cose dette nei pensieri qui sopra, inferite che le nostre cognizioni intorno
alla natura o dell’uomo o delle cose, e le nostre deduzioni, raziocini, e
conclusioni, per la maggior parte non sono assolute ma relative, [160]cioè
sono vere in quanto alla maniera di essere delle cose esistenti, e da noi
conosciute per tali, ma era in arbitrio della natura che fossero altrimenti. E
intendo anche della maggior parte degli assiomi astratti, pochi de’ quali sono
veramente assoluti e necessari in qualunque sistema di cose possibili (benchè
paiano), eccetto forse in matematica. E apprendiamo a formarci della possibilità un’idea più estesa della comune, e della necessità e verità un’idea
più limitata assai. Vedete in questo proposito il fine del primo Libro del
Zanotti sopra le forze che chiamano vive.
Applicate
le cose dette nel pensiero che incomincia Anche la stessa negligenza ec.
(p.50.) alle produzioni francesi riputate da quella nazione, modelli di
semplicità naïveté ec. p.e. al Tempio di Gnido di Montesquieu, sebbene
in questo il male deriva piuttosto dal contrasto della semplicità delle cose
col ricercato e manierato dello stile.
La
rivoluzione Francese posto che fosse preparata dalla filosofia, non fu eseguita
da lei, perchè la filosofia specialmente moderna, non è capace per se medesima
di operar nulla. E quando anche la filosofia fosse buona ad eseguire essa
stessa una rivoluzione, non potrebbe mantenerla. È veramente compassionevole il
vedere come quei legislatori francesi repubblicani, credevano di conservare, e
assicurar la durata, e seguir l’andamento la natura e lo scopo della
rivoluzione, col ridur tutto alla pura ragione, e pretendere per la prima volta ab orbe condito di geometrizzare tutta la vita. Cosa non solamente
lagrimevole in tutti i casi se riuscisse, e perciò stolta a desiderare, ma
impossibile a riuscire anche in questi tempi matematici, perchè dirittamente
contraria alla natura dell’uomo e del mondo. Le Comité d’instruction
publique réçut ordre de présenter un projet tendant à substituer un culte
raisonnable au culte catholique! (Lady Morgan, France [161]l.8. 3me édit. française, Paris 1818. t.2. p.284. note de l’auteur) E non vedevano che l’imperio
della pura ragione è quello del dispotismo per mille capi, ma eccone
sommariamente uno. La pura ragione dissipa le illusioni e conduce per mano l’egoismo.
L’egoismo spoglio d’illusioni, estingue lo spirito nazionale, la virtù ec. e
divide le nazioni per teste, vale a dire in tante parti quanti sono gl’individui. Divide et impera. Questa divisione della moltitudine, massimamente di
questa natura, e prodotta da questa cagione, è piuttosto gemella che madre
della servitù. Qual altra è la cagione sostanziale della universale e durevole
servitù presente a differenza de’ tempi antichi? Vedete che cosa avvenne ai
Romani quando s’introdusse fra loro la filosofia e l’egoismo, in luogo del
patriotismo. Il qual egoismo è così forte che dopo la morte di Cesare, quando
parea naturalissimo, che le antiche idee si risvegliassero ne’ romani, fa pietà
il vederli così torpidi, così indifferenti, così tartarughe, così marmorei
verso le cose pubbliche. E Cicerone nelle filippiche il cui grande scopo era di
render utile la morte di Cesare, vedete se predica la ragione, e la filosofia,
o non piuttosto le pure illusioni, e quelle gran vanità che aveano creata e
conservata la grandezza romana. (8. Luglio 1820.). V. p.357. capoverso 1.
In
proposito di quello che ho detto p.145. osservate come infatti l’eloquenza vera
non abbia fiorito mai se non quando ha avuto il popolo per uditore. Intendo un
popolo padrone di se, e non servo, un popolo vivo e non un popolo morto, sia
per la sua condizione in genere, sia in quella tal congiuntura, come alle
nostre prediche il popolo non è vivo, non ha azione ec. ec. Oltre che il
soggetto delle prediche non ha il movimento, l’azione, la vita necessarie alla
grande eloquenza, e perciò quella del pergamo, quando anche sia somma e
perfetta, è tutt’altra eloquenza che l’antica, e forma [162]un genere a
parte. Del resto appena le repubbliche e la libertà si sono spente, le
assemblee, le società, i tribunali, le corti, non hanno mai sentito la vera eloquenza,
non essendo uditorii capaci di suscitarla. E questo probabilmente è uno de’
motivi per cui la repubblica di Venezia non ha avuto mai eloquenza, perch’era
una repubblica aristocratica e non democratica. Vedete quello che dice Cicerone
nell’oraz. pro Deiotaro capo 2.
Racconta
Diogene Laerzio di Chilone Lacedemonio il quale interrogato in che differissero
i dotti dagl’indotti, rispose: nelle buone speranze (¤lpÛsin
ŽgaJaÝw). Io non so dire se avesse
riguardo alle cose di questo mondo o di una vita avvenire. Certamente rispetto
a quelle, oggidì avviene appunto il contrario. In che differisce l’ignorante
dal savio? Nella speranza.
Lo scopo
dell’incivilimento moderno doveva essere di ricondurci appresso a poco alla
civiltà antica offuscata ed estinta dalla barbarie dei tempi di mezzo. Ma
quanto più considereremo l’antica civiltà, e la paragoneremo alla presente,
tanto più dovremo convenire ch’ella era quasi nel giusto punto, e in quel mezzo
tra i due eccessi, il quale solo poteva proccurare all’uomo in società una
certa felicità. La barbarie de’ tempi bassi non era una rozzezza primitiva, ma
una corruzione del buono, perciò dannosissima e funestissima. Lo scopo dell’incivilimento
dovea esser di togliere la ruggine alla spada già bella, o accrescergli solamente
un poco di lustro. Ma siamo andati tanto oltre volendola raffinare e aguzzare
che siamo presso a romperla. E osservate che l’incivilimento ha conservato in
grandissima parte il cattivo dei tempi bassi, ch’essendo proprio loro, era più
moderno, e tolto tutto quello che restava [163]loro di buono dall’antico
per la maggior vicinanza (del quale antico in tutto e per tutto abbiam fatto
strage), come l’esistenza e un certo vigore del popolo, e dell’individuo, uno
spirito nazionale, gli esercizi del corpo, un’originalità e varietà di
caratteri costumi usanze ec. L’incivilimento ha mitigato la tirannide de’ bassi
tempi, ma l’ha resa eterna, laddove allora non durava, tanto a cagione dell’eccesso,
quanto per li motivi detti qui sopra. Spegnendo le commozioni e le turbolenze
civili, in luogo di frenarle com’era scopo degli antichi (Montesquieu ripete
sempre che le divisioni sono necessarie alla conservazione delle repubbliche, e
ad impedire lo squilibrio dei poteri, ec. e nelle repubbliche ben ordinate non
sono contrarie all’ordine, perchè questo risulta dall’armonia e non dalla
quiete e immobilità delle parti, nè dalla gravitazione smoderata e oppressiva
delle une sulle altre, e che per regola generale, dove tutto è tranquillo non c’è
libertà), non ha assicurato l’ordine ma la perpetuità tranquillità e
immutabilità del disordine, e la nullità della vita umana. In somma la civiltà
moderna ci ha portati al lato opposto dell’antica, e non si può comprendere
come due cose opposte debbano esser tutt’uno, vale a dire civiltà tutt’e due.
Non si tratta di piccole differenze, si tratta di contrarietà sostanziali: o
gli antichi non erano civili, o noi non lo siamo.
Io
riguardo l’indebolimento corporale delle generazioni umane, come l’una delle
principali cause del gran cangiamento del mondo e dell’animo e cuore umano dall’antico
al moderno. Così anche della barbarie de’ secoli di mezzo, stante la
depravazione de’ costumi sotto i primi imperatori e in seguito, la quale è
certa cagione d’infiacchimento corporale, come [164]appresso i Persiani
divenuti fiacchissimi (e perciò barbari e privi di libertà) per la depravazione
degli antichi costumi e istituti che li rendevano vigorosissimi. V. la Ciroped.
cap. ult. art.5. e segg. sino al fine.
In
proposito di quello che ho detto p.108. notate come ci muova a compassione e c’intenerisca
il veder qualunque persona che nell’atto di provare un dispiacere, una
sventura, un dolore ec. dà segno della propria debolezza, e impotenza di
liberarsene. Come anche il veder maltrattare anche leggermente una persona che
non possa resistere.
Il
racconto è uffizio della parola, la descrizione del disegno (eseguito in
qualunque modo). Quindi non è maraviglia che quello sia più facile di questa al
parlatore. E questa è una delle primarie cagioni per cui era falso ed assurdo
quel genere di poesia poco fa tanto in pregio e in uso appresso gli stranieri
massimamente, che chiamavano descrittiva. Perchè quantunque il poeta o lo
scrittore possa bene assumere anche l’uffizio di descrivere, è da stolto il
farne professione, non essendo uffizio proprio della poesia, e quindi non è
possibile che non ne risulti affettazione e ricercatezza, e stento, volendolo
fare per istituto e per argomento, lasciando stare la noia che deve nascere
dalla lettura di una poesia tutta diretta a un uffizio proprio di un’altra
arte, e perciò e inferiore a questa, malgrado qualunque studio, e stentata, e
tediosa per la continuazione di una cosa che non appartenendole non può esser
troppo lunga, al contrario di quelle che le appartengono, nelle quali nessuno
biasima che [la] poesia si ravvolga tutta intera.
[165]Il sentimento della nullità di
tutte le cose, la insufficienza di tutti i piaceri a riempierci l’animo, e la
tendenza nostra verso un infinito che non comprendiamo, forse proviene da una
cagione semplicissima, e più materiale che spirituale. L’anima umana (e così
tutti gli esseri viventi) desidera sempre essenzialmente, e mira unicamente,
benchè sotto mille aspetti, al piacere, ossia alla felicità, che considerandola
bene, è tutt’uno col piacere. Questo desiderio e questa tendenza non ha limiti,
perch’è ingenita o congenita coll’esistenza, e perciò non può aver fine in
questo o quel piacere che non può essere infinito, ma solamente termina colla
vita. E non ha limiti 1. nè per durata, 2. nè per estensione. Quindi non ci può
essere nessun piacere che uguagli 1. nè la sua durata, perchè nessun piacere è
eterno, 2. nè la sua estensione, perchè nessun piacere è immenso, ma la natura delle
cose porta che tutto esista limitatamente e tutto abbia confini, e sia
circoscritto. Il detto desiderio del piacere non ha limiti per durata, perchè,
come ho detto non finisce se non coll’esistenza, e quindi l’uomo non
esisterebbe se non provasse questo desiderio. Non ha limiti per estensione
perch’è sostanziale in noi, non come desiderio di uno o più piaceri, ma come
desiderio del piacere. Ora una tal natura porta con se materialmente l’infinità,
perchè ogni piacere è circoscritto, ma non il piacere la cui estensione è
indeterminata, e l’anima amando sostanzialmente il piacere, abbraccia
tutta l’estensione immaginabile di questo sentimento, senza poterla neppur
concepire, perchè non si può formare idea chiara di una cosa ch’ella desidera
illimitata. Veniamo alle conseguenze. Se tu desideri un cavallo, ti pare di
desiderarlo come cavallo, e come un tal piacere, ma in fatti lo desideri
come piacere astratto e illimitato. Quando giungi a possedere il cavallo, [166]trovi
un piacere necessariamente circoscritto, e senti un vuoto nell’anima, perchè
quel desiderio che tu avevi effettivamente, non resta pago. Se anche fosse
possibile che restasse pago per estensione, non potrebbe per durata, perchè la
natura delle cose porta ancora che niente sia eterno. E posto che quella
material cagione che ti ha dato un tal piacere una volta, ti resti
sempre (p.e. tu hai desiderato la ricchezza, l’hai ottenuta, e per sempre),
resterebbe materialmente, ma non più come cagione neppure di un tal piacere,
perchè questa è un’altra proprietà delle cose, che tutto si logori, e tutte le
impressioni appoco a poco svaniscano, e che l’assuefazione, come toglie il
dolore, così spenga il piacere. Aggiungete che quando anche un piacere provato
una volta ti durasse tutta la vita, non perciò l’animo sarebbe pago, perchè il
suo desiderio è anche infinito per estensione, così che quel tal piacere quando
uguagliasse la durata di questo desiderio, non potendo uguagliarne l’estensione,
il desiderio resterebbe sempre, o di piaceri sempre nuovi, come accade in
fatti, o di un piacere che riempiesse tutta l’anima. Quindi potrete facilmente
concepire come il piacere sia cosa vanissima sempre, del che ci facciamo tanta
maraviglia, come se ciò venisse da una sua natura particolare, quando il dolore
la noia ec. non hanno questa qualità. Il fatto è che quando l’anima desidera
una cosa piacevole, desidera la soddisfazione di un suo desiderio infinito,
desidera veramente il piacere, e non un tal piacere; ora nel fatto
trovando un piacere particolare, e non astratto, e che comprenda tutta l’estensione
del piacere, ne segue che il suo desiderio non essendo soddisfatto di gran
lunga, il piacere appena è piacere, perchè non si tratta di una piccola ma di
una somma [167]inferiorità al desiderio e oltracciò alla speranza. E
perciò tutti i piaceri debbono esser misti di dispiacere, come proviamo, perchè
l’anima nell’ottenerli cerca avidamente quello che non può trovare, cioè una
infinità di piacere, ossia la soddisfazione di un desiderio illimitato.
Veniamo
alla inclinazione dell’uomo all’infinito. Indipendentemente dal desiderio del
piacere, esiste nell’uomo una facoltà immaginativa, la quale può concepire le
cose che non sono, e in un modo in cui le cose reali non sono. Considerando la
tendenza innata dell’uomo al piacere, è naturale che la facoltà immaginativa
faccia una delle sue principali occupazioni della immaginazione del piacere. E
stante la detta proprietà di questa forza immaginativa, ella può figurarsi dei
piaceri che non esistano, e figurarseli infiniti 1. in numero, 2. in durata, 3.
e in estensione. Il piacere infinito che non si può trovare nella realtà, si
trova così nella immaginazione, dalla quale derivano la speranza, le illusioni
ec. Perciò non è maraviglia 1. che la speranza sia sempre maggior del bene, 2.
che la felicità umana non possa consistere se non se nella immaginazione e
nelle illusioni. Quindi bisogna considerare la gran misericordia e il gran
magistero della natura, che da una parte non potendo spogliar l’uomo e nessun
essere vivente, dell’amor del piacere che è una conseguenza immediata e quasi
tutt’uno coll’amor proprio e della propria conservazione necessario alla
sussistenza delle cose, dall’altra parte non potendo fornirli di piaceri reali
infiniti, ha voluto supplire 1. colle illusioni, e di queste è stata loro
liberalissima, e bisogna considerarle come cose arbitrarie in natura, la quale
poteva ben farcene senza, 2. coll’immensa varietà [168]acciocchè l’uomo
stanco o disingannato di un piacere ricorresse all’altro, o anche disingannato di
tutti i piaceri fosse distratto e confuso dalla gran varietà delle cose, ed
anche non potesse così facilmente stancarsi di un piacere, non avendo troppo
tempo di fermarcisi, e di lasciarlo logorare, e dall’altro canto non avesse
troppo campo di riflettere sulla incapacità di tutti i piaceri a soddisfarlo.
Quindi deducete le solite conseguenze della superiorità degli antichi sopra i
moderni in ordine alla felicità. 1. L’immaginazione come ho detto è il primo
fonte della felicità umana. Quanto più questa regnerà nell’uomo, tanto più l’uomo
sarà felice. Lo vediamo nei fanciulli. Ma questa non può regnare senza l’ignoranza,
almeno una certa ignoranza come quella degli antichi. La cognizione del vero
cioè dei limiti e definizioni delle cose, circoscrive l’immaginazione. E
osservate che la facoltà immaginativa essendo spesse volte più grande negl’istruiti
che negl’ignoranti, non lo è in atto come in potenza, e perciò operando molto
più negl’ignoranti, li fa più felici di quelli che da natura avrebbero sortito
una fonte più copiosa di piaceri. E notate in secondo luogo che la natura ha
voluto che l’immaginazione non fosse considerata dall’uomo come tale, cioè non
ha voluto che l’uomo la considerasse come facoltà ingannatrice, ma la
confondesse colla facoltà conoscitrice, e perciò avesse i sogni dell’immaginazione
per cose reali e quindi fosse animato dall’immaginario come dal vero (anzi più,
perchè l’immaginario ha forze più naturali, e la natura è sempre superiore alla
ragione). Ma ora le persone istruite, quando anche sieno fecondissime d’illusioni
le hanno per tali, e le seguono più per volontà che per persuasione, al
contrario degli antichi [169]degl’ignoranti de’ fanciulli e dell’ordine
della natura. 2. Tutti i piaceri, come tutti i dolori ec. essendo tanto grandi
quanto si reputano, ne segue che in proporzione della grandezza e copia delle
illusioni va la grandezza e copia de’ piaceri, i quali sebbene neanche gli
antichi li trovassero infiniti, tuttavia li trovavano grandissimi, e capaci se
non di riempierli, almeno di trattenerli a bada. La natura non volea che
sapessimo, e l’uomo primitivo non sa che nessun piacere lo può soddisfare.
Quindi e trovando ciascun piacere molto più grande che noi non facciamo, e
dandogli coll’immaginazione un’estensione quasi illimitata, e passando di
desiderio in desiderio, colla speranza di piaceri maggiori e di un’intera
soddisfazione, conseguivano il fine voluto dalla natura, che è di vivere se non
paghi intieramente di quella tal vita, almeno contenti della vita in genere.
Oltre la detta varietà che li distraeva infinitamente, e li faceva passare
rapidamente da una cosa all’altra senz’aver tempo di conoscerla a fondo, nè di
logorare il piacere coll’assuefazione. 3. La speranza è infinita come il
desiderio del piacere, ed ha di più la forza se non di soddisfar l’uomo, almeno
di riempierlo di consolazione, e di mantenerlo in piena vita. La speranza
propria dell’uomo, degli antichi, fanciulli, ignoranti, è quasi annullata per
il moderno sapiente. V. il pensiero che incomincia Racconta, p.162.
Del
resto il desiderio del piacere essendo materialmente infinito in estensione
(non solamente nell’uomo ma in ogni vivente), la pena dell’uomo nel provare un
piacere è di veder subito i limiti della sua estensione, i quali l’uomo non
molto profondo gli scorge solamente da presso. Quindi è manifesto 1. perchè
tutti [170]i beni paiano bellissimi e sommi da lontano, e l’ignoto sia
più bello del noto; effetto della immaginazione determinato dalla inclinazione
della natura al piacere, effetto delle illusioni voluto dalla natura. 2. perchè
l’anima preferisca in poesia e da per tutto, il bello aereo, le idee infinite.
Stante la considerazione qui sopra detta, l’anima deve naturalmente preferire
agli altri quel piacere ch’ella non può abbracciare. Di questo bello aereo, di
queste idee abbondavano gli antichi, abbondano i loro poeti, massime il più
antico cioè Omero, abbondano i fanciulli veramente Omerici in questo, (v. il
pensiero Circa l’immaginazione, p.57. e l’altro p.100.) gl’ignoranti ec.
in somma la natura. La cognizione e il sapere ne fa strage, e a noi riesce
difficilissimo il provarne. La malinconia, il sentimentale moderno ec. perciò
appunto sono così dolci, perchè immergono l’anima in un abbisso di pensieri
indeterminati de’ quali non sa vedere il fondo nè i contorni. E questa pure è
la cagione perchè nell’amore ec. come ho detto p.142. Perchè in quel tempo l’anima
si spazia in un vago e indefinito. Il tipo di questo bello e di queste idee non
esiste nel reale, ma solo nella immaginazione, e le illusioni sole ce le
possono rappresentare, nè la ragione ha verun potere di farlo. Ma la natura
nostra n’era fecondissima, e voleva che componessero la nostra vita. 3. perchè
l’anima nostra odi tutto quello che confina le sue sensazioni. L’anima cercando
il piacere in tutto, dove non lo trova, già non può esser soddisfatta. Dove lo
trova, abborre i confini per le sopraddette ragioni. Quindi vedendo la bella
natura, ama che l’occhio si spazi quanto è possibile. La qual cosa il
Montesquieu (Essai sur le goût, De la curiosité. p.374.375.) attribuisce alla
curiosità. Male. La curiosità non è altro che una determinazione [171]dell’anima
a desiderare quel tal piacere, secondo quello che dirò poi. Perciò ella potrà
esser la cagione immediata di questo effetto, (vale a dire che se l’anima non
provasse piacere nella vista della campagna ec. non desidererebbe l’estensione
di questa vista), ma non la primaria, nè questo effetto è speciale e proprio
solamente delle cose che appartengono alla curiosità, ma di tutte le cose
piacevoli, e perciò si può ben dire che la curiosità è cagione immediata del
piacere che si prova vedendo una campagna, ma non di quel desiderio che questo
piacere sia senza limiti. Eccetto in quanto ciascun desiderio di ciascun
piacere può essere illimitato e perpetuo nell’anima, come il desiderio generale
del piacere. Del rimanente alle volte l’anima desidererà ed effettivamente
desidera una veduta ristretta e confinata in certi modi, come nelle situazioni
romantiche. La cagione è la stessa, cioè il desiderio dell’infinito, perchè
allora in luogo della vista, lavora l’immaginazione e il fantastico sottentra
al reale. L’anima s’immagina quello che non vede, che quell’albero, quella
siepe, quella torre gli nasconde, e va errando in uno spazio immaginario, e si
figura cose che non potrebbe se la sua vista si estendesse da per tutto, perchè
il reale escluderebbe l’immaginario. Quindi il piacere ch’io provava sempre da
fanciullo, e anche ora nel vedere il cielo ec. attraverso una finestra, una
porta, una casa passatoia, come chiamano. Al contrario la vastità e
moltiplicità delle sensazioni diletta moltissimo l’anima. Ne deducono ch’ella è
nata per il grande ec. Non è questa la ragione. Ma proviene da ciò, che la
moltiplicità delle sensazioni, confonde l’anima, [172]gl’impedisce di
vedere i confini di ciascheduna, toglie l’esaurimento subitaneo del piacere, la
fa errare d’un piacere in un altro senza poterne approfondare nessuno, e quindi
si rassomiglia in certo modo a un piacere infinito. Parimente la vastità quando
anche non sia moltiplice, occupa nell’anima un più grande spazio, ed è più
difficilmente esauribile. La maraviglia similmente, rende l’anima attonita, l’occupa
tutta e la rende incapace in quel momento di desiderare. Oltre che la novità
(inerente alla maraviglia) è sempre grata all’anima, la cui maggior pena è la
stanchezza dei piaceri particolari.
Da
questa teoria del piacere deducete che la grandezza anche delle cose non
piacevoli per se stesse, diviene un piacere per questo solo ch’è grandezza. E non
attribuite questa cosa alla grandezza immaginaria della nostra natura. Posta la
detta teoria, si viene a conoscere (quello ch’è veramente) che il desiderio del
piacere diviene una pena, e una specie di travaglio abituale dell’anima. Quindi
1. un assopimento dell’anima è piacevole. I turchi se lo proccurano coll’oppio,
ed è grato all’anima perchè in quei momenti non è affannata dal desiderio,
perchè è come un riposo dal desiderio tormentoso, e impossibile a soddisfar
pienamente; un intervallo come il sonno nel quale se ben l’anima forse non
lascia di pensare, tuttavia non se n’avvede. 2. la vita continuamente occupata
è la più felice, quando anche non sieno occupazioni e sensazioni vive, e varie.
L’animo occupato è distratto da quel desiderio innato che non lo lascerebbe in
pace, o lo rivolge a quei piccoli fini della giornata (il terminare un lavoro
il provvedere ai suoi bisogni ordinari ec. ec. ec.) giacchè li considera allora
come piaceri (essendo piacere tutto quello che l’anima desidera), e conseguitone
uno, passa a un altro, così che è distratto da desideri maggiori, e non ha
campo di affliggersi della vanità e del vuoto delle cose, e la speranza di quei [173]piccoli fini, e i piccoli disegni sulle occupazioni avvenire o
sulle speranze di un esito generale lontano e desiderato, bastano a riempierlo,
e a trattenerlo nel tempo del suo riposo, il quale non è troppo lungo perchè
sottentri la noia; oltre che il riposo dalla fatica è un piacere per se. Questa
dovea esser la vita dell’uomo, ed era quella dei primitivi, ed è quella dei
selvaggi, degli agricoltori ec. e gli animali non per altra cagione se non per
questa principalmente, vivono felici. Ed osservate come lo spettacolo della
vita occupata laboriosa e domestica, sembri anche oggidì, a chi vive nel mondo,
lo spettacolo della felicità, anche per la mancanza dei dolori, e delle cure e
afflizioni reali. 3. il maraviglioso, lo straordinario è piacevole, quantunque
la sua qualità particolare non appartenga a nessuna classe delle cose
piacevoli. L’anima prova sempre piacere quando è piena (purchè non sia di
dolore), e la distrazione viva ed intera è un piacere rispetto a lei
assolutamente, come il riposo dalla fatica è piacere, perchè una tal
distrazione è riposo dal desiderio. E come è piacevole lo stupore cagionato
dall’oppio (anche relativamente alla dimenticanza dei mali positivi), così
quello cagionato dalla maraviglia, dalla novità, e dalla singolarità. Quando
anche la maraviglia non sia tanta che riempia l’anima, se non altro l’occupa
sempre fortemente, ed è piacevole per questa parte. Notate che la natura aveva
voluto che la maraviglia 1. fosse cosa ordinarissima all’uomo, 2. fosse
spessissimo intera, cioè capace di riempier tutta l’anima. Così accade ne’
fanciulli, e accadeva ne’ primitivi, e ora negl’ignoranti, ma non può accadere
senza l’ignoranza, e l’ignoranza d’oggi non può mai esser come quella dell’uomo
che non vive in società, perchè vivendo in società, [174]l’esperienza de’
passati e de’ presenti l’istruisce, più o meno, ma sempre l’istruisce, e la
novità diventa rara. 4. anche l’immagine del dolore e delle cose terribili ec.
è piacevole, come ne’ drammi e poesie d’ogni sorta, spettacoli ec. Purchè l’uomo
non tema o non si dolga per se, la forza della distrazione gli è sempre
piacevole. Non è bisogno che quelle immagini siano di cose straordinarie: in
questo caso cadrebbero sotto la categoria precedente. Ma la semplice immagine
del dolore ec. è sufficiente a riempier l’animo e distrarlo. 5. la grandezza di
ogni qualsivoglia genere (eccetto del proprio male) è piacevole. Naturalmente
il grande occupa più spazio del piccolo, salvo se la piccolezza è
straordinaria, nel qual caso occupa più della grandezza ordinaria. Questo ch’io
dico della grandezza è un effetto materiale derivante dalla inclinazione dell’uomo
al piacere, e non dalla inclinazione alla grandezza. Si potrebbe forse dir lo
stesso del sublime, il quale è cosa diversa dal bello ch’è piacevole all’uomo
per se stesso. In somma la noia non è altro che una mancanza del piacere che è
l’elemento della nostra esistenza, e di cosa che ci distragga dal desiderarlo.
Se non fosse la tendenza imperiosa dell’uomo al piacere sotto qualunque forma,
la noia, quest’affezione tanto comune, tanto frequente, e tanto abborrita non
esisterebbe. E infatti per che motivo l’uomo dovrebbe sentirsi male, quando non
ha male nessuno? Poniamo un uomo isolato senza nessuna occupazione spirituale o
corporale, e senza nessuna cura o afflizione o dolor positivo, o annoiato [175]dalla
uniformità di una cosa non penosa nè dispiacevole per sua natura, e ditemi per
che motivo quest’uomo deve soffrire. E pur vediamo che soffre, e si dispera, e
preferirebbe qualunque travaglio a quello stato. (Anzi è famosa la risposta
affermativa data dai medici consultati dal duca di Brancas, se la noia potesse
uccidere. Lady Morgan France l.8. notes). Non per altro se non per un desiderio
ingenito e compagno inseparabile dell’esistenza, che in quel tempo non è
soddisfatto, non ingannato, non mitigato, non addormentato. E la natura è certo
che ha provveduto in tutti i modi contro questo male, all’orrore e ripugnanza
del quale nell’uomo, si può paragonare quell’orrore del vuoto che gli antichi
fisici supponevano nella natura, per ispiegare alcuni effetti naturali. Ha
provveduto col dare all’uomo molti bisogni, e nella soddisfazione del bisogno
(come della fame e della sete, freddo, caldo ec.) porre il piacere, quindi col
volerlo occupato; colla gran varietà, colla immaginazione che l’occupa anche
del nulla, ed anche col timore (il quale sebbene è un effetto naturale e
spontaneo anch’esso dell’amor proprio, tuttavia bisogna considerare il sistema
della natura in genere, e la mirabile armonia e corrispondenza di diversi
effetti a questo o quello scopo), coi pericoli i quali affezionano maggiormente
alla vita, e sciolgono la noia, colle turbazioni degli elementi, coi dolori e
coi mali istessi, perchè è più dolce il guarir dai mali, che il vivere senza
mali; e con tali altri disastri, che si considerano come mali, e quasi difetti
della natura, scusandola col definirli per accidenti fuori dell’ordine; ma che
forse essendo tali ciascuno, non lo sono tutti insieme; ed appartengono anch’essi
al gran sistema universale. In somma il sistema della natura rispetto all’uomo
è sempre diretto ad allontanar da lui questo male formidabile della noia, che a
detta di tutti i filosofi essendo così frequente all’uomo moderno, è quasi
sconosciuto al primitivo (e così agli animali). E osservate come i fanciulli
anche in una quasi perfetta inazione, pur di rado o non mai sentano [176]il
vero tormento della noia, perchè ogni minima bagattella basta ad occuparli
tutti interi, e la forza della loro immaginazione dà corpo e vita e azione ad
ogni fantasia che si affacci loro alla mente ec. e trovano in somma in se
stessi una sorgente inesauribile di occupazioni e sempre varie. Questo senza
cognizioni, senza esperienze, senza viaggi, senz’aver veduto udito ec. in un
mondo ristrettissimo e uniforme. E laddove parrebbe che quanto più questo mondo
e questo campo si accresce e diversifica, tanto più ampio e vario per l’uomo
dovesse essere il fondo delle occupazioni interne come son quelle dei
fanciulli, e la noia tanto più rara, nondimeno vediamo accadere tutto il
contrario. Gran lezione per chi non vuol riconoscere la natura come sorgente quasi
unica di felicità, e l’alterazione di lei, come certa cagione d’infelicità. Del
resto che la forza e fecondità dell’immaginazione 1. come rende facilissima l’azione,
così spessissimo renda facile l’inazione, 2. sia cosa ben diversa dalla
profondità della mente, la quale per lo contrario conduce all’infelicità, è
manifesto per l’esempio de’ popoli meridionali, segnatamente degl’italiani,
rispetto ai settentrionali. Giacchè gl’italiani 1. come una volta per il loro
entusiasmo figlio di un’immaginazione viva e più ricca che profonda, erano
attivissimi, così ora una delle cagioni per cui non si accorgono o almeno non
si disperano affatto di una vita sempre uniforme, e di una perfetta inazione, è
la stessa immaginazione ugualmente ricca e varia, e la soprabbondanza delle
sensazioni che ne deriva, la quale gl’immerge senza che se n’avvedano in una
specie di rêve, come i fanciulli quando son soli ec. cosa continuamente
inculcata dalla Staël, laddove i settentrionali non avendo tal sorgente di
occupazione interna atta a consolarli, per necessità ricorrono all’esterna, e
divengono attivissimi. 2. la profondità della mente, [177]e la facoltà
di penetrare nei più intimi recessi del vero dell’astratto ec. quantunque non
sia loro ignota a cagione della loro sottigliezza, prontezza e penetrazione,
(che rende loro più facile il concepimento e la scoperta del vero, laddove agli
altri bisogna più fatica, e perciò spesso sbagliano con tutta la profondità)
contuttociò non è il loro forte, e per lo contrario forma tutta l’occupazione e
quindi l’infelicità dei settentrionali colti (osservate perciò la frequenza de’
suicidi in Inghilterra) i quali non hanno cosa che li distragga dalla
considerazione del vero. E quantunque paia che l’immaginazione anche appresso
loro sia caldissima originalissima ec. tuttavia quella è piuttosto filosofia e
profondità, che immaginazione, e la loro poesia piuttosto metafisica che
poesia, venendo più dal pensiero che dalle illusioni. E il loro sentimentale è
piuttosto disperazione che consolazione. E la poesia antica perciò appunto non
è stata mai fatta per loro; perciò appunto hanno gusti tutti differenti, e si
compiacciono degli enti allegorici, delle astrazioni ec. (v. p.154.) perciò
appunto sarà sempre vero che la nostra è propriamente la patria della poesia, e
la loro quella del pensiero. (V. p.143-144.)
Dopo che
la natura ha posto nell’uomo una inclinazione illimitata al piacere, è rimasta
libera di fare che questa o quella cosa fosse considerata come piacere. Perciò
le cagioni per cui una cosa è piacevole, sono indipendenti dalla sovresposta
teoria, dipendendo dall’arbitrio della natura il determinare in qual cosa
dovessero consistere i piaceri, e conseguentemente quali particolari dovessero
esser l’oggetto della sopraddetta inclinazione dell’uomo. Esclusi quei piaceri
che ho annoverati poco sopra (p.172. segg.), i quali sono piaceri, non perch’è
piaciuto alla natura di volerli tali indipendentemente dalla inclinazione dell’uomo
al piacere, ma solamente o principalmente per questo, che l’uomo desidera [178]illimitatamente
il piacere. Del resto la virtù, i piaceri corporali, quelli della curiosità (v.
se vuoi Montesquieu nel luogo citato p.170. qui sopra) (giacchè, come ho detto,
per piacere intendo e vanno intese tutte le cose che l’uomo desidera) ec. ec.
sono piaceri perchè la natura ha voluto, e potevano non essere con tutta la
inclinazione dell’uomo al piacere, come l’idea assoluta che l’uomo ha della
convenienza non è ragione perchè queste o quelle cose gli paiano convenienti, e
belle. E dei piaceri altri sono comuni, altri particolari di questa o quella
nazione, altri di questa o quella classe d’uomini, come i piaceri appartenenti
all’avarizia all’ambizione ec., altri anche individuali, secondo le
assuefazioni, le opinioni, le costituzioni corporali, i climi ec. come l’idea
rispettiva della bellezza dipende dalle assuefazioni costumi opinioni ec. (V.
Montesquieu l.c. De la sensibilité. p.392.) E la natura ha posto nell’uomo
diverse qualità delle quali altre si sviluppano necessariamente, altre o si
sviluppano o restano chiuse e inattive secondo le circostanze. E di queste
seconde altre la natura voleva, o non proibiva che si sviluppassero, altre non
voleva, e sviluppandosi, rendono l’uomo infelice. E la cagione per cui le ha
poste nell’uomo non volendo che sviluppassero, starà nel sistema profondo della
natura, e probabilmente si potrebbe scoprire, se non ci fermassimo adesso sul
generale. Secondo queste diverse qualità, l’uomo trova piacevoli diverse cose,
e l’uomo incivilito prova diversi piaceri dal primitivo, e sentirà dei piaceri
che il primitivo non provava, e non proverà molti di quelli che il primitivo
provava. E perciò dall’esserci ora piacevole una cosa il cui piacere dipenda
dal nostro eccessivo incivilimento, non deduciamo che questo era voluto dalla
natura. E se ora [179]p.e. l’eccessiva curiosità del vero ci proccura
molti piaceri quando arriviamo a conoscerlo, non perciò dobbiamo stimare che la
natura ci volesse così curiosi, nè che questi piaceri sieno naturali, nè che l’uomo
naturale ne avesse gran vaghezza, o non sapesse benissimo contenersi in questo
desiderio, nè per conseguenza che l’infelicità dell’uomo fosse necessaria, e
provenga dalla natura assoluta dell’uomo, quando proviene dalla nostra
rispettiva e corrotta. Perchè molte circostanze che hanno sviluppato in noi
questa o quella qualità non erano volute dalla natura, e provengono dall’uomo e
non da lei. Del resto atteso la detta teoria de’ piaceri particolari,
potrebbe anche essere che l’idea dell’infinito, la maraviglia e qualcuna delle
cose piacevoli che ho annoverate come tali a cagione solamente dell’inclinazione
nostra al piacere, fossero piacevoli anche indipendentemente da questa; e la
ragione fosse l’arbitrio della natura, come negli altri piaceri. Mi sembra però
che la ragione della loro piacevolezza sia bastantemente spiegata nel modo che
ho fatto, e che tutti i loro accidenti possano cadere sotto quelle
considerazioni.
L’infinità
della inclinazione dell’uomo al piacere è un’infinità materiale, e non se ne
può dedur nulla di grande o d’infinito in favore dell’anima umana, più di
quello che si possa in favore dei bruti nei quali è naturale ch’esista lo
stesso amore e nello stesso grado, essendo conseguenza immediata e necessaria
dell’amor proprio, come spiegherò poco sotto. Quindi nulla si può dedurre in
questo particolare dalla inclinazione dell’uomo all’infinito, e dal sentimento
della nullità delle cose (sentimento non naturale nell’uomo, e che perciò non
si trova nelle bestie, come neanche nell’uomo [180]primitivo, ed è nato
da circostanze accidentali che la natura non voleva). E il desiderio del
piacere essendo una conseguenza della nostra esistenza per se, e per ciò solo
infinito, e compagno inseparabile dell’esistenza come il pensiero, tanto può
servire a dimostrare la spiritualità dell’anima umana, quanto la facoltà di
pensare. Anzi è notabile come quel sentimento che pare a prima giunta la cosa
più spirituale dell’animo nostro (v. p.106-107.), sia una conseguenza immediata
e necessaria (nella nostra condizione presente) della cosa più materiale che
sia negli esseri viventi cioè dell’amor proprio e della propria conservazione,
di quella cosa che abbiamo affatto comune coi bruti, e che per quanto possiamo
comprendere può parer propria in certo modo di tutte le cose esistenti.
Certamente non c’è vita senza amor di se stesso, e amor della vita. Quanto poi
alla facoltà che ha l’immaginazione nostra di concepire un certo infinito, un
piacere che l’anima non possa abbracciare, cagione vera per cui l’infinito le
piace, quanto dico a questa facoltà, la quale è indipendente dalla inclinazione
al piacere, e stava in arbitrio della natura di darcela o non darcela, giudichi
ciascuno quanto possa provare in favore della nostra grandezza. Io per me credo
1. che la natura l’abbia posta in noi solamente per la nostra felicità
temporale, che non poteva stare senza queste illusioni. 2. osservo che questa
facoltà è grandissima nei fanciulli, primitivi, ignoranti, barbari ec. Quindi
congetturo e mi par ben verisimile che esista anche nelle bestie in un certo
grado, e relativamente a certe idee, come son quelle dei fanciulli ec. 3.
considero che la ragione, la quale si vuole avere per fonte della nostra
grandezza, e cagione della nostra superiorità sopra gli altri animali, qui non
ha che far niente, se non per [181]distruggere; per distruggere quello
che v’ha di più spirituale nell’uomo, perchè non c’è cosa più spirituale del
sentimento nè più materiale della ragione, giacchè il raziocinio è un’operazione
matematica dell’intelletto, e materializza e geometrizza anche le nozioni più
astratte. 4. che le illusioni sono anzi affatto naturali, animali, atti dell’uomo
e non umani secondo il linguaggio scolastico, ed appartenenti all’istinto, il
quale abbiamo comune cogli altri animali, se non fosse affogato dalla ragione.
Applicate queste considerazioni a quello che soglion dire gli scrittori
religiosi, che il non poter noi trovarci mai soddisfatti in questo mondo, i
nostri slanci verso un infinito che non comprendiamo, i sentimenti del nostro
cuore, e cose tali che appartengono veramente alle illusioni, formino una delle
principali prove di una vita futura.
Tutto il
sopraddetto intorno alla teoria del piacere è un nuovo argomento del quanto si
potrebbe semplificare la teoria dell’uomo e delle cose, (v. p.53.) e del come
il sistema intero della natura si aggiri sopra pochissimi principii i quali
producono gl’infiniti e variatissimi effetti che vediamo, e stabiliti i quali,
si direbbe che la natura ha avuto poco da faticare, perchè le conseguenze ne son
derivate necessariamente e come spontaneamente. I fenomeni dell’animo umano
notati dai moderni psicologi perderebbero tutta la maraviglia, la quale deriva
ordinariamente dall’ignoranza della relazione e dipendenza che hanno gli
effetti particolari colle cause generali. P.e. quei fenomeni che ho analizzati
e spiegati di sopra, derivano immediatamente da un principio notissimo, che è l’amor
del piacere. E questo amor del piacere è [182]una conseguenza spontanea
dell’amor di se e della propria conservazione. Questo è un principio anche più
noto e universale, e quasi finale. Tuttavia quantunque la natura potesse
separar queste due cose, esistenza e amor di lei, e perciò l’amor proprio sia
una qualità posta da lei arbitrariamente nell’essere vivente, a ogni modo la
nostra maniera di concepir le cose appena ci permette d’intendere come una cosa
che è, non ami di essere, parendo che il contrario di questo amore, sarebbe
come una contraddizione coll’esistenza - Perciò l’amor proprio si può
considerare ancor esso (nella natura quale la vediamo) come una conseguenza
dell’esistere, e questo in certo modo anche negli esseri inanimati. Ora
discendiamo. Esistenza. amore dell’esistenza (quindi della conservazione di
lei, e di se stesso) - amor del piacere (è una conseguenza immediata dell’amor
proprio, perchè chi si ama, naturalmente è determinato a desiderarsi il bene
che è tutt’uno col piacere, a volersi piuttosto in uno stato di godimento che
in uno stato indifferente o penoso, a volere il meglio dell’esistenza ch’è l’esistenza
piacevole, invece del peggio, o del mediocre ec.) - amore dell’infinito ec.
colle altre qualità considerate di sopra. Così queste qualità che paiono
disparatissime e particolarissime vengono dirittamente dal principio generale
dell’amor proprio, e tanto necessariamente e materialmente, che si può dire che
la natura, dato che ebbe all’uomo l’amor proprio, e secondo la nostra maniera
di concepire, data che gli ebbe l’esistenza, non ebbe da far altro, e le dette
qualità (delle quali ci facciamo tanta maraviglia), senza opera sua, vennero da
loro.
[183]Conseguito un piacere, l’anima non
cessa di desiderare il piacere, come non cessa mai di pensare, perchè il
pensiero e il desiderio del piacere sono due operazioni egualmente continue e
inseparabili dalla sua esistenza.
Noi
supponiamo sempre negli altri una grande e straordinaria penetrazione per
rilevare i nostri pregi veri o immaginari che sieno, e profondità di
riflessione per considerarli, quando anche ricusiamo di riconoscere in loro
queste qualità rispetto a qualunque altra cosa.
La
speranza non abbandona mai l’uomo in quanto alla natura. Bensì in quanto alla
ragione. Perciò parlano stoltamente quelli che dicono (gli autori della Morale
universelle t.3.) che il suicidio non possa seguire senza una specie di pazzia,
essendo impossibile senza questa il rinunziare alla speranza ec. Anzi tolti i
sentimenti religiosi, è una felice e naturale, ma vera e continua pazzia, il
seguitar sempre a sperare, e a vivere, ed è contrarissimo alla ragione, la
quale ci mostra troppo chiaro che non v’è speranza nessuna per noi. (23. Luglio 1820.)
Se nella
giornata tu hai veduto o fatto qualche cosa non ordinaria per te, la sera nell’addormentarti
o per qualunque altra cagione, e in qualunque stato, chiudendo gli occhi, ti
vedi subito innanzi, non dico al pensiero, ma alla vista, le immagini sensibili
di quello che hai veduto. E ciò quando anche tu pensi a tutt’altro, e neanche
ti ricordi più di quello che avevi veduto forse molte ore addietro, nel quale
intervallo ti sarai dato a tutte altre occupazioni. In maniera [184]che
questa vista, quantunque appartenga intieramente alle facoltà dell’anima, e in
nessun modo ai sensi, tuttavia non dipende affatto dalla volontà, e se pure
appartiene alla memoria, le appartiene, possiamo dire esternamente, perchè tu
in quel punto neanche ti ricordavi delle cose vedute, ed è piuttosto quella
vista che te le richiama alla memoria, di quello che la stessa memoria te le
richiami al pensiero. Effettivamente molte volte neanche pensandoci apposta, ci
ricorderemmo di alcune cose, che all’improvviso ci vengono in immagine viva e
vera dinanzi agli occhi. E notate che ciò accade senza nessun motivo e nessuna
occasione presente, che tocchi nella memoria quel tasto, perchè del rimanente
molte volte accade che una leggerissima circostanza, quasi movendo una molla
della nostra memoria, ci richiami idee e ricordanze anche lontanissime, senza
nessuno intervento della volontà, e senza che i nostri pensieri d’allora ci abbiano
alcuna parte.
Più
volte m’è accaduto di addormentarmi con alcuni versi o parole in bocca, ch’io
avrò ripetute spesso dentro la giornata, o dentro qualche ora prima del sonno,
o vero coll’aria di qualche cantilena in mente; dormire pensando o sognando
tutt’altro, e risvegliarmi ripetendo fra me gli stessi versi o parole, o colla
stess’aria nella fantasia. Pare che l’anima nell’addormentarsi deponga i suoi
pensieri e immagini d’allora, come deponiamo i vestimenti, in un luogo alla
mano e vicinissimo, affine di ripigliarli, subito svegliata. E questo pure
senza operazione della volontà. Parimente s’io dentro la giornata aveva letto
per un certo tempo del greco o latino o francese o italiano elegante ec. quando
la mia memoria era più pronta, (perchè ora [185]che nello svegliarmi la
trovo ottusissima, non mi accade così facilmente) mi risvegliava con varie
frasi di quelle lingue in mente, e quasi parlando quelle lingue fra me, non
ostante che nel sonno, nessuna idea me le avesse richiamate. Questo pure involontariamente.
E così si può dire di cento altre idee d’ogni sorta, che al risvegliarti si
presentano spontaneamente affatto.
Qualunque
cosa ci richiama l’idea dell’infinito è piacevole per questo, quando anche non
per altro. Così un filareo un viale d’alberi di cui non arriviamo a scoprire il
fine. Questo effetto è come quello della grandezza, ma tanto maggiore quanto
questa è determinata, e quella si può considerare come una grandezza
incircoscritta. Ci piacerà anche più quel viale quanto sarà più spazioso, più
se sarà scoperto, arieggiato e illuminato, che se sarà chiuso al di sopra, o
poco arieggiato, ed oscuro, almeno quando l’idea di una grandezza infinita che
ci deve presentare deriva da quella grandezza che cade sotto i sensi, e non è
opera totalmente dell’immaginazione, la quale come ho detto, si compiace alcune
volte del circoscritto, e di non vedere più che tanto per potere immaginare ec.
In
ordine alle donne, diceva taluno, ho già perdute due virtù teologali, la fede e
la speranza. Resta l’amore, cioè la terza virtù, della quale per anche non mi
posso spogliare, con tutto che non creda nè speri più niente. Ma presto mi
verrà fatto, e allora finalmente mi appiglierò alla contrizione.
(25. Luglio 1820.)
[186]La ragione che reca Montesquieu
(Essai sur le goût. Des plaisirs de la symétrie) perchè l’anima amando la
varietà, tuttavia dans la plupart des choses elle aime à voir une espèce de
symétrie, il che sembra che renferme quelque contradiction, non mi
capacita. Une des principales causes des plaisirs de notre ame, lorsqu’elle
voit des objets, c’est la facilité qu’elle a à les appercevoir; et la raison
qui fait que la symétrie plaît à l’ame, c’est qu’elle lui épargne de la peine,
qu’elle la soulage, et qu’elle coupe, pour ainsi dire, l’ouvrage par la moitié.
De-là suit une règle générale: par-tout où la symétrie est utile à l’ame et
peut aider ses fonctions, elle lui est agréable; mais, par-tout où elle est
inutile, elle est fade, parce qu’elle ôte la variété. Or les choses que nous
voyons successivement doivent avoir de la variété; car notre ame n’a aucune
difficulté à les voir: celles, au contraire, que nous appercevons d’un coup d’oeil
doivent avoir de la symétrie. Ainsi, comme nous appercevons d’un coup d’oeil la
façade d’un bâtiment, un parterre, un temple, on y met de la symétrie, qui
plaît à l’ame par la facilité qu’elle lui donne d’embrasser d’abord tout l’objet.
Ora io domando perchè
noi vedendo una campagna, un paesaggio dipinto o reale ec. d’un colpo d’occhio
come un parterre, e gli oggetti di quella e di questa vista, essendo i
medesimi, noi vogliamo in quella la varietà, e in questa la simmetria. E perchè
ne’ giardini inglesi parimente la varietà ci piaccia [187]in luogo della
simmetria. La ragion vera è questa. I detti piaceri, e gran parte di quelli che
derivano dalla vista, e tutti quelli che derivano dalla simmetria, appartengono
al bello. Il bello dipende dalla convenienza. La simmetria non è tutt’uno colla
convenienza ma solamente una parte o specie di essa, dipendente essa pure dalle
opinioni gusti ec. che determinano l’idea delle proporzioni, corrispondenze,
ec. La convenienza relativa dipende dalle stesse opinioni gusti, ec. Così che
dove il nostro gusto indipendentemente da nessuna cagione innata e generale,
giudica conveniente la simmetria, quivi la richiede, dove no non la richiede, e
se giudica conveniente la varietà, richiede la varietà. E questo è tanto vero,
che quantunque si dica comunemente che la varietà è il primo pregio di una
prospettiva campestre, contuttociò essendo relativo anche questo gusto, si
troveranno di quelli che anche nella prospettiva campestre amino una certa
simmetria, come i toscani che sono avvezzi a veder nella campagna tanti
giardini. E così noi per l’assuefazione amiamo la regolarità dei vigneti,
filari d’alberi, piantagioni solchi ec. ec. e ci dorremmo della regolarità di
una catena di montagne ec. Che ha che far qui l’utile o l’inutile? perchè
quando sì, quando no negli oggetti della stessa natura? perchè in queste
persone sì, in quelle no? Di più quegli stessi alberi che ci piacciono
collocati regolarmente in una piantagione, ci piaceranno ancora collocati senz’ordine
in una selva, boschetto ec. La simmetria e la varietà, gli effetti dell’arte e
quelli della natura, sono due generi di bellezze. Tutti [188]due ci
piacciono, ma purchè non sieno fuor di luogo. Perciò l’irregolarità in un’opera
dell’arte ci choque ordinariamente (eccetto quando sia pura imitazione
della natura, come ne’ giardini inglesi) perchè quivi si aspetta il contrario;
e la regolarità ci dispiace in quelle cose che si vorrebbero naturali, non
parendo ch’ella convenga alla natura, quando però non ci siamo assuefatti come
i toscani.
Notate
che ne’ pazzi i più malinconici e disperati, è naturalissimo e frequente un
riso stupido e vuoto, che non viene da più lontano che dalle labbra. Vi
prenderanno per la mano con guardatura profondissima, e nel lasciarvi vi
diranno addio con un sorriso che parrà più disperato e più pazzo della
stessa disperazione e pazzia. Cosa però notabilissima anche nei savi ridotti
alla intiera disperazione della vita, e massimamente dopo concepita una
risoluzione estrema, che li fa riposare appunto in questa estremità d’orrore, e
li placa, come già sicuri della vendetta sopra la fortuna e se stessi.
Nessun
dolore cagionato da nessuna sventura, è paragonabile a quello che cagiona una
disgrazia grave e irrimediabile, la quale sentiamo ch’è venuta da noi, e che
potevamo schivarla, in somma al pentimento vivo e vero.
Così il
bene come il male aspettato sono ordinariamente più grandi che il bene o il
male presente. La cagione di tutte due le cose è la stessa, cioè l’immaginazione
determinata dall’amor proprio occupato nel primo caso dalla speranza, nel
secondo dal timore.
Perchè
una cosa non piacevole per se stessa, tuttavia [189]piaccia quando
riesce inaspettata, in somma da che derivi il piacere della sorpresa
considerata puramente come sorpresa, si spiega colla teoria della noia esposta
di sopra in questi pensieri. Perchè l’uomo prova piacere ogni volta ch’è mosso
potentemente, purchè non dal timore o dal male. Perchè poi il piacere
inaspettato riesca ordinariamente maggiore dell’aspettato, si spiega parte
colla detta ragione, parte con quella che ho notata, p.73. E v.
se vuoi Montesquieu Essai sur le goût. Des plaisirs de la surprise. Amsterdam
1781. p.386. Du je ne sais quoi. p.394. progression de la surprise p.398.
L’affettazione
ordinariamente è madre dell’uniformità. Da ciò viene che sazia ben presto. In
tutti gli scritti di un gusto falso e affettato, come in tante poesie
straniere, come nelle poesie orientali, osservate che voi sentirete sempre un
senso di monotonia, come guardando quelle figure gotiche che dice Montesquieu,
l.c. des Contrastes p.383. E questo quando anche il poeta o lo scrittore abbia
cercato la varietà a più potere. Ragioni. 1. L’arte non può mai uguagliare la
ricchezza della natura, anzi vediamo quante varietà svaniscano quando l’arte se
ne impaccia, come nei caratteri e costumi e opinioni dell’uomo e in tutto il
gran sistema della natura umana già pieno di varietà, sia nelle idee e nell’immaginazione
sia nel materiale, ed ora dall’arte reso tanto uniforme. Così dunque l’affettazione.
2. L’affettazione continua è una uniformità da se sola, cioè in quanto è una
qualità continua dell’opera d’arte. Non dite che in questo caso anche la
naturalezza continua dovrebbe riuscire uniforme. 1. la naturalezza non risalta
nè stanca [190]nè dà negli occhi come l’affettazione (ch’è una qualità
estranea alla cosa), eccetto s’ella pure fosse ricercata e affettata, nel qual
caso non è più naturalezza ma affettazione, come spessissimo nelle dette
poesie. 2. la naturalezza appena si può chiamar qualità o maniera, non essendo
qualità o maniera estranea alle cose, ma la maniera di trattar le cose
naturalmente, e com’elle sono, vale a dire in mille diversissime maniere,
laonde le cose sono varie nella poesia, nello scrivere, in qualunque imitazion
vera, come nella realtà. Applicate queste osservazioni anche alle arti, p.e. ai
paesaggi fiamminghi paragonati a quelli del Canaletto veneziano (v. la Dionigi
Pittura de’ paesi), alle stampe di Alberto Duro, dove lo stento e l’accuratezza
manifesta del taglio dà un colore uguale e monotono alla più gran varietà di
oggetti imitati nel resto eccellentemente e variatissimamente. Così accade che
la negligenza apparente, e l’abbandono, lasciando cader tutte le cose nella
scrittura come cadono naturalmente (o in pittura ec.) sia certa origine di
varietà, e quindi non istanchi come le altre qualità della scrittura ec. p.e.
anche l’eleganza: giacchè nessuna stancherà meno della disinvoltura.
Dalle
due sopraddette ragioni intendete perchè la massima parte delle scritture e
specialmente poesie francesi stanchino sopra modo. Il loro eterno stile di
conversazione 1. dev’essere infinitamente meno vario del naturale, come l’arte
della natura. 2. dà un colore uniforme alle cose più varie, ed un colore ch’essendo
estraneo alla cosa, risalta, e stanca a brevissimo andare. In fatti osservate
che le poesie francesi paiono tutte d’un pezzo, per la grande monotonia, e il
senso che producono è questo, d’una cosa dura dura e non pieghevole, nè
adattabile [191]a niente.
Il suono
dello j, e ge e gi francese è un suono distintissimo che
manca alla nostra lingua, e forma effettivamente un’altra lettera dell’alfabeto.
Nè si può chiamare un composto di g, ed s. 1. perchè è distintissimo dal
suono di ciascuna di queste due lettere, 2. perchè si pronunzia tutto in un
solo istante, e non successivamente come noi italiani pronunzieremmo sgi o sghi
o gsi, ma sibbene come il z il quale è una lettera bella e buona distintissima
dalle altre, e non un composto di t ed s. Osservate anche le due diverse
pronunzie del z l’una o l’altra delle quali manca io credo a parecchie nazioni,
e la s schiacciata dei francesi che manca parimente a noi.
Il primo
autore delle città vale a dire della società, secondo la Scrittura, fu il primo
riprovato, cioè Caino, e questo dopo la colpa la disperazione e la riprovazione.
Ed è bello il credere che la corruttrice della natura umana e la sorgente della
massima parte de’ nostri vizi e scelleraggini sia stata in certo modo effetto e
figlia e consolazione della colpa. E come il primo riprovato fu il primo
fondatore della società, così il primo che definitamente la combattè e
maledisse, fu il redentore della colpa, cioè Gesù Cristo, secondo quello che ho
detto p.112.
Con
quello che dice Montesquieu, Essai sur le Goût. Des diverses
causes qui peuvent produire un sentiment. De la sensibilité. De la délicatesse p.389-393. spiegate
la cagione per cui c’interessino tanto le Storie romana e greca, i fatti
cantati da Omero e da Virgilio ec. le tragedie ec. composte [192]sopra
quegli argomenti ec. ec. E come quell’interesse non ci possa esser suscitato da
nessun’altra storia, o poema sopra altri fatti ancorchè benissimo cantati, come
dall’Ossian, o tragedia d’altri argomenti, quando anche appartengano alla
nostra storia patria più immediata, come agli avvenimenti de’ bassi tempi ec. e
molto meno dalle poesie orientali, e da cento altre belle cose volute e messe
in voga dai nostri romantici, che di vera psicologia non s’intendono un fico.
Tutto proviene dalla moltiplicità delle cause che producono in noi un
sentimento, e sono, rispetto alle dette cose, ricordanze della fanciullezza,
abitudine presa, fama universale di quelle nazioni e di quei poeti,
affezionamento ancorchè involontario, continuo uso di sentirne parlare,
rispetto venerazione ammirazione amore per quelli che ne hanno parlato, tutte
ragioni la mancanza delle quali rende difficilissimo, e forse impossibile il
fare ugualmente interessante un soggetto nuovo, massime in poesia, dove tutto
il diletto proviene dall’interesse, e non può stare colla sola curiosità, o
desiderio d’istruirsi ec. come nelle storie e simili. E v. il mio
discorso sui romantici. Souvent notre ame se compose elle-même des raisons
de plaisir, et elle y réussit surtout par les liaisons qu’elle met aux choses.
Questo e tutto l’altro
che dice Montesquieu è notabilissimo, e applicabile a diversissimi casi e
condizioni nelle quali ci riesce piacevole quello che ad altri non riesce, e a
noi [193]stessi non riusciva in altre circostanze. P.e. fu un tempo non
breve in cui la poesia classica non mi dava nessun piacere, e io non ci trovava
nessuna bellezza. Fu un tempo in cui io non trovava altro studio piacevole che
la pura e secca filologia, che ad altri par noiosissima. Fu un tempo in cui le
scienze mi parevano studi intollerabili. E quanti nelle loro professioni trovano
piaceri, che agli altri parranno maravigliosi, non potendo comprendere che
diletto si trovi in quelle occupazioni! E nominatamente in quello che
appartiene alle lettere e belle arti, chi non sa e non vede tuttogiorno che il
letterato e l’artista trova piaceri incredibili e sempre nuovi nella lettura o
nella contemplazione di questa o di quell’opera, che letta o contemplata dai
volgari, non sanno comprendere che diascolo di gusto ci si trovi? E piuttosto
lo troveranno in cento altre operacce di pessima lega. Con questo spiegate
ancora la diversità de’ gusti ne’ diversi tempi, classi, nazioni, climi ec.
Gran
magistero della natura fu quello d’interrompere, per modo di dire, la vita col
sonno. Questa interruzione è quasi una rinnovazione, e il risvegliarsi come un
rinascimento. Infatti anche la giornata ha la sua gioventù ec. v. p.151. Oltre
alla gran varietà che nasce da questi continui interrompimenti, che fanno di
una vita sola come tante vite. E lo staccare una giornata dall’altra è un sommo
rimedio contro la monotonia dell’esistenza. Nè questa si poteva diversificare e
variare maggiormente, che componendola in [194]gran parte quasi del suo
contrario, cioè di una specie di morte.
Il
ritrovare e procacciare la felicità destinata dalla natura all’uomo, non è più
opera del privato neanche per se solo. Non in società, perchè ognuno vede come
ci si vive, e il privato non può migliorare le nostre istituzioni. Non nella
vita domestica solitaria e primitiva, perchè i piaceri suoi non possono più cadere
in persone disingannate ed esaurite nella immaginazione. Il dare al mondo
distrazioni vive, occupazioni grandi, movimento, vita; il rinnuovare le
illusioni perdute ec. ec. e opera solo de’ potenti.
La
politica non deve considerar solamente la ragione, ma la natura, dico la natura
vera e non artefatta nè alterata. Il codice de’ Cristiani in quante cose si
scosta dalla fredda ragione per accostarsi alla natura! Esempio poco o nulla
imitato dai legislatori moderni.
Oltre
che il virtuoso è per l’ordinario sconosciuto e non voluto conoscere e
confessare dalla moltitudine che è formata dai tristi, tale è la misera
condizione dell’uomo in società, e dell’intrigo delle circostanze, ch’egli è
sovente sconosciuto e pigliato per tutt’altro, anche dagli altri pochissimi
virtuosi. Io mi sono abbattuto a dovere stimare ed amare due persone di
rettissimo cuore, che per alcuni incontri datisi tra loro, si stimavano
scambievolmente con intima persuasione, pessimi di carattere e di cuore. Tant’è,
noi giudichiamo del carattere degli uomini dal modo nel quale si sono portati
verso noi o perchè credessero di dovere, e anche dovessero portarsi così, o
arbitrariamente, o per forza di congiunture, o anche per colpa. E il [195]più
scellerato del mondo, se non ci avrà nociuto, e per qualunque motivo, avrà
avuto occasione di beneficarci, anche semplicemente di trattarci bene, di
mostrarcisi affabile manieroso rispettoso ec. basterà questo perch’egli nell’animo
nostro abbia un posto non cattivo, ed anche di uomo onesto. E quando anche l’intelletto
ripugni, il cuore e la fantasia ne terranno sempre questo concetto. Questa
dovrebb’essere regola generale per qualunque senta dir bene o male di
chicchessia. Se quegli che parla, parla per altrui relazione, o se parla di
mala fede può avere altri motivi. Ma tolti questi due casi, ordinariamente
nella vita privata, tu devi supporre che quegli che ti parla ha ricevuto bene o
male da quella tal persona, e da tutto il suo discorso non credere di restare
informato se non di questo.
Gli
uomini sono come i cavalli. Per tenergli in dovere e farsi stimare bisogna
sparlare bravare minacciare e far chiasso. Bisogna adoperar l’espediente di
quelle monache del Tristram Shandy.
Sebbene
è spento nel mondo il grande e il bello e il vivo, non ne è spenta in noi l’inclinazione.
Se è tolto l’ottenere, non è tolto nè possibile a togliere il desiderare. Non è
spento nei giovani l’ardore che li porta a procacciarsi una vita, e a sdegnare
la nullità e la monotonia. Ma tolti gli oggetti ai quali anticamente si era
rivolto questo ardore, vedete a che cosa li debba portare e li porti
effettivamente. L’ardor giovanile, cosa naturalissima, universale,
importantissima, una volta entrava grandemente nella considerazione [196]degli
uomini di stato. Questa materia vivissima e di sommo peso, ora non entra più
nella bilancia dei politici e dei reggitori, ma è considerata appunto come non
esistente. Frattanto ella esiste ed opera senza direzione nessuna, senza
provvidenza, senza esser posta a frutto (opera perchè quantunque tutte le
istituzioni tendano a distruggerla, la natura non si distrugge, e la natura in
un vigor primo freschissimo e sommo com’è in quell’età) e laddove anticamente
era una materia impiegata e ordinata alle grandi utilità pubbliche, ora questa
materia così naturale, e inestinguibile, divenuta estranea alla macchina e
nociva, circola e serpeggia e divora sordamente come un fuoco elettrico, che
non si può sopire nè impiegare in bene nè impedire che non iscoppi in temporali
in tremuoti ec. (1. Agosto 1820.).
Alla
p.164. pensiero primo, aggiungi. Se tu vedi un fanciullo, una donna, un vecchio
affaticarsi impotentemente per qualche operazione in cui la loro debolezza
impedisca loro di riuscire, è impossibile che tu non ti muova a compassione, e
non proccuri, potendo, d’aiutarli. E se tu vedi che tu dai incomodo o
dispiacere ec. ad uno il quale soffre senza poterlo impedire, sei di marmo, o
di una irriflessione bestiale, se ti dà il cuore di continuare.
Anche
gli uomini già sazi della lode, e persuasi della loro fama che non guadagna per
le espressioni particolari di questo o di quello, sono sensibili alla lode che
riguarda qualche pregio diverso da quelli per cui sono famosi. E però, eccetto
le persone avvezze a essere adulate in ogni cosa, nessuno diviene indifferente
alla lode in [197]genere, ma alla lode di quelle tali sue qualità. Di
più la lode più cara è spesso quella che cade sopra una cosa nella quale tu
desideri, ma dubiti o stimi di non esser lodevole, o che altri non ti abbia per
tale.
Dice Diogene Laerzio di Chilone che prow¡tatte... Þsxuròn
önta pr˜on eänai, ôpvw oß plhsÛon aidÇntai mllon µ fobÇntai. E questo precetto si deve estendere,
massimamente oggidì in tanta propagazione dell’egoismo, a tutti i vantaggi
particolari di cui l’individuo può godere. Perchè se tu sei bello non ti resta
altro mezzo per non essere odiosissimo agli uomini che un’affabilità
particolare, e come una certa noncuranza di te stesso, che plachi l’amor
proprio altrui offeso dall’avvantaggio che tu hai sopra di loro, o anche dall’uguaglianza.
Così se tu sei ricco, dotto, potente ec. Quanto maggiore è l’avvantaggio che tu
hai sopra gli altri, tanto più per fuggir l’odio, t’è necessaria una maggiore
amabilità, e quasi dimenticanza e disprezzo di te stesso in faccia agli altri,
perchè tu devi medicare una cagione d’odio che tu hai in te stesso e che gli
altri non hanno: una cagione assoluta, che ti fa odioso per se sola, senza che
tu sia nè ingiusto nè superbo nè ec. Ed era questa una cosa notissima agli
antichi, tanto persuasi della odiosità dei vantaggi individuali, che ne
credevano invidiosi gli stessi dei, e nella prosperità avevano cura dell’invidiam
deprecari tanto divina che umana, e quindi un [198]seguito non
interrotto di felicità li rendeva paurosi di gravi sciagure. V. Frontone de
Bello Parthico.
Montesquieu (Essai sur le Goût. Du je ne sais quoi) fa consistere la grazia e il non so che, principalmente nella sorpresa, nel dar più di quello che si prometta ec. In questa materia della grazia così astrusa nella teoria delle arti, come quella della grazia divina nella teologia, noterò 1. L’effetto della grazia non è di sublimar l’anima, o di riempierla, o di renderla attonita come fa la bellezza, ma di scuoterla, come il solletico scuote il corpo, e non già fortemente come la scintilla elettrica. Bensì appoco appoco può produrre nell’anima una commozione e un incendio vastissimo, ma non tutto a un colpo. Questo è piuttosto effetto della bellezza che si mostra tutta a un tratto, e non ha successione di parti. E forse anche per questo motivo accade quello che dice Montesquieu, che le grandi passioni di rado sono destate dalle grandi bellezze, ma ordinariamente dalla grazia, perchè l’effetto della bellezza si compie tutto in un attimo, e all’anima dopo che s’è appagata di quella vista non rimane altro da desiderare nè da sperare, se però la bellezza non è accompagnata da spirito, virtù ec. Al contrario la grazia ha successione di parti, anzi non si dà grazia senza successione. Quindi veduta una parte, resta desiderio e speranza delle altre. 2. Perciò la grazia ordinariamente consiste nel movimento: e diremo così, la bellezza è nell’istante, e la grazia nel tempo. Per movimento intendo anche tutto quello che spetta alla parola. 3. Veramente non è grazia [199]tutto quello ch’è sorpresa. Già si sa quante sorprese non abbiano che far colla grazia, ma anche in punto di donne, e di bello, la sorpresa non è sempre grazia. Ponete una bellissima donna mascherata, o col viso coperto, e supponete di non conoscerla, e ch’ella improvvisamente vi scopra il viso, e che quella bellezza vi giunga affatto inaspettata. Quest’è una bella e piacevole sorpresa, ma non è grazia. E per tener dietro precisamente a quello che dice Montesquieu, che la grazia deriva principalmente da questo che nous sommes touchés de ce qu’une personne nous plaît plus qu’elle ne nous a paru d’abord devoir nous plaire; et nous sommes agréablement surpris de ce qu’elle a su vaincre des défauts, que nos yeux nous montrent et que le coeur ne croit plus, supponete di vedere una donna o un giovane di persona disavvenente, e all’improvviso mirandolo in volto, trovarlo bellissimo; questa pure è sorpresa, ma non grazia. 4. Pare che la grazia consista in certo modo nella naturalezza, e non possa star senza questa. Tuttavia primieramente, siccome la natura, secondo che osserva anche Montesquieu, è ora più difficile a seguire, e più rara assai che l’arte, così notate che quelle grazie che consistono in pura naturalezza, non si danno ordinariamente senza sorpresa. Se tu senti o vedi un fanciullo che parla o vero opera, le sue parole e le sue azioni e movimenti, ti riescono sempre come straordinari, hanno un non so che di nuovo e d’inaspettato che ti punge, e fa una certa maraviglia, e tocca la curiosità. Così in qualunque altro soggetto di naïveté. In secondo luogo ci sono anche delle cose non naturali, che pur sono graziose; o vero naturali, ma graziose non per questo che sono naturali.